Penale

Ritardo nella richiesta di fallimento e pagamenti destinati al salvataggio dell'impresa

La Suprema Corte di Cassazione (Sez. V Penale), con sentenza n. 18528 del 18 giugno 2020, è tornata a pronunciarsi sui reati di bancarotta, sia semplice sia fraudolenta, fornendo rilevanti spunti di riflessione sulla configurabilità degli stessi, specialmente dal punto di vista dell'elemento soggettivo

di Mattia Miglio, Marco Gentile, Stefano Beccardi


La pronuncia in esame riveste estremo interesse per tutti quei casi in cui lo stato di dissesto sia stato cagionato dalla condotta di un terzo – quale può essere il consulente contabile-fiscale infedele – a fronte del quale l'imprenditore abbia provato ad evitare il fallimento, mediante la prosecuzione dell'attività tipica, al fine di ripianare l'esposizione debitoria.

Nel caso trattato dai giudici di legittimità, però, siffatto tentativo dell'imprenditore era incriminato sia per ipotizzata bancarotta semplice patrimoniale (art. 217, comma 1, nn. 3 e 4, L. Fall.), in quanto avrebbe ritardato il fallimento e aggravato il debito verso l'Erario e gli Enti previdenziali, sia per ipotizzata bancarotta fraudolenta preferenziale (art. 216, comma III, L. Fall.), poiché nel corso della prosecuzione dell'attività erano state pagate somme in relazione alle forniture di materiale e alla retribuzione dei dipendenti.

Da parte sua, l'imprenditore allegava di essere rimasto vittima del proprio consulente contabile-fiscale, che dapprima aveva omesso i versamenti fiscali e previdenziali dovuti (senza peraltro esporre il debito in bilancio) e poi, una volta ricevuta la provvista al fine di perfezionare il "ravvedimento operoso", tratteneva indebitamente le somme per sé. Invero, tali fatti erano stati accertati in un separato giudizio penale, conclusosi con la condanna del consulente.

Dinanzi a tale situazione di fatto, il GUP assolveva con formula piena l'imprenditore da ogni capo d'accusa a suo carico, ma la decisione era "ribaltata" in grado di appello, avverso la quale era opposta impugnazione per cassazione.

Benché la citata sentenza si sia pronunciata in modo significativo anche con riguardo ai principi regolatori del processo penale, gli scriventi propongono a seguire alcune considerazioni critiche sulla configurabilità dei reati in discorso.

Sulla bancarotta semplice patrimoniale
Come noto, l'art. 217, comma 1, n. 3 punisce l'imprenditore nell'ipotesi in cui questi abbia "compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento", mentre il successivo n. 4 sanziona il fallito ove abbia aggravato "il proprio dissesto astenendosi dal richiedere la dichiarazione del fallimento o con altra grave colpa".

Orbene, non vi sono dubbi che mediante l'introduzione di tali norme, il legislatore del 1942 abbia voluto sanzionare ogni condotta gravemente imprudente e/o negligente nell'ambito della gestione delle crisi aziendali.

D'altro canto, in ossequio a una lettura aderente al principio di legalità, è altrettanto vero che entrambe le fattispecie incriminatrici non possano dirsi integrate sic et simpliciter dal mero ritardo nella richiesta di fallimento, anche perché, nell'attuale assetto normativo, non vi è alcuna norma che imponga all'imprenditore uno specifico obbligo di richiedere il proprio fallimento.

Ne consegue, pertanto, che l'imprenditore potrà (in astratto) rispondere ex art. 217, comma 1 n. 3 solo ove abbia compiuto specifiche operazioni gravemente imprudenti per ritardare il fallimento.

Parimenti, anche la fattispecie ex art. 217, comma 1, n. 4, L. Fall. non punisce la mera omessa presentazione di un'istanza di fallimento, richiedendo altresì che questa condotta omissiva sia causalmente correlata all'aggravamento del dissesto.

Peraltro, secondo l'attuale interpretazione giurisprudenziale, non ogni condotta omissiva che abbia cagionato un incremento del dissesto può assumere rilevanza penale, dal momento che il citato comma 1, n. 4, include l'inciso "astenendosi dal richiedere la dichiarazione del fallimento o con altra grave colpa", lasciando così intendere che tale fattispecie può assumere rilevanza penale solo se la condotta omissiva venga accompagnata da colpa grave (cfr. Trib. Bologna, 25 novembre 2015, n. 2228).

Stando così le cose, la mancata richiesta di fallimento assume rilevanza penale solo in presenza di colpa grave, non potendo mai la mancata presentazione tempestiva di una richiesta di fallimento integrare un'ipotesi di colpa presunta (Cass. Pen., Sez. V, 15 luglio 2015, n. 38077).

Del resto, il ritardo nell'adozione della grave decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato ad una vasta gamma di dinamiche gestionali, che si estende dall'estremo dell'assoluta noncuranza a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse e che, parallelamente, presuppongono diverse declinazioni dell'elemento colposo, potendo anche sfociare anche nella semplice responsabilità oggettiva, come tale penalmente irrilevante (Cass. Pen., Sez. V, 15 luglio 2015, n. 38077).

Quindi, la condotta omissiva deve essere sempre contrassegnata da un atteggiamento di inescusabile trascuratezza nella gestione dell'impresa (cfr. Trib. Bologna, 25.11.2015, cit.).

Un atteggiamento colposo che deve essere parametrato secondo il tradizionale modello ex ante, che prenda in considerazione e valuti, congiuntamente:

a) il momento temporale in cui si sia manifestato il dissesto e in relazione alle concrete possibilità di salvaguardia aziendale;

b) tutto il patrimonio di conoscenze in capo all'imprenditore al momento del compimento delle condotte di salvaguardia;

c) la possibilità - ai fini della valutazione sulla gravità della colpa - di adottare concrete e fondate prospettive di prosecuzione dell'attività imprenditoriale in luogo e in alternativa di iniziative immediatamente liquidatorie (del resto, l'ordinamento fallimentare ha introdotto un'ampia gamma di istituti paraconcorsuali, quali il concordato preventivo, l'accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o l'accordo di composizione della crisi).

Orbene, la pronuncia qui in esame sembra porsi in linea di conformità con i principi appena riportati.

In questo senso, la Suprema Corte censura la sentenza di appello proprio perché la sentenza di condanna trovava fondamento sull'unico dato, "oggettivo ed incontestato, del prosieguo dell'attività, avvenuto nonostante il crescente indebitamento verso l'erario, senza che vi fosse alcuna richiesta di fallimento, con conseguente incremento del debito" (p. 6).

Al contrario, la Suprema Corte mostra di accogliere il ragionamento seguito dal giudice di primo grado, il quale aveva escluso ogni responsabilità penale, rilevando "l'assenza dell'indicazione, nella contestazione, di specifici atti posti in essere, a fronte di una mera inerzia, nonostante lo stato di decozione e la prosecuzione dell'attività imprenditoriale ponendo in risalto l'assenza dell'elemento soggettivo del reato, quanto al fine specifico di ritardare il fallimento" (p. 6).

Valutazione - quella in merito alla sussistenza dell'elemento soggettivo - che ha - in particolare - "trascurato la "turbolenza" nella gestione societaria, dovuta alla indagine della Guardia di Finanza, per reati tributari e alle vicende a carico del professionista che assisteva la società (per aver inserito nella contabilità false fatturazioni per operazioni inesistenti, emesse da società cd. cartiere)" (p. 6).

Sulla bancarotta fraudolenta preferenziale
Passando all'ipotesi di bancarotta preferenziale (art. 216, comma III, L. Fall.), questa fattispecie - in estrema sintesi - punisce l'imprenditore che, prima o durante la procedura fallimentare, esegue pagamenti (o simula titoli di prelazione) allo scopo di favorire, a danno dei creditori, alcuni di essi.

Come noto, tale norma nasce con lo scopo di tutelare la par condicio creditorum; a rilevare, quindi, non è tanto la diminuzione della consistenza patrimoniale destinate a soddisfare le pretese dei creditori del fallito, quanto invece la lesione della parità di trattamento tra i creditori, che consiste nell'alterazione dell'ordine, stabilito dalla legge, di soddisfazione dei creditori (si vedano in tal senso, Cass. Pen., Sez. V, 8 ottobre 2018, n. 54512; Cass. Pen., Sez. V, 15 gennaio 2018, n. 3797). Pertanto, nel caso in cui il fallito provveda al pagamento di crediti privilegiati, la configurabilità del reato in parola presuppone il concorso di altri crediti con privilegio di grado prevalente o eguale rimasti insoddisfatti per effetto dei pagamenti de quibus e non già di qualsiasi altro credito (Cass. Pen., Sez. V, 3 ottobre 2018, n. 54502; Cass. Pen., Sez. V, 12 marzo 2014, n. 15712).

Tali condotte - secondo il principale orientamento dottrinale - devono essere poste in essere in pendenza di uno stato di (acclarata) insolvenza dell'impresa, tale da non consentire l'integrale soddisfacimento di tutte le pretese creditizie secondo le scadenze prefissate. Del resto, diversamente, in presenza di un mero stato patrimoniale fortemente squilibrato, ogni pagamento preferenziale potrebbe in astratto pregiudicare la parità di trattamento tra creditori, mentre, ove lo stato di insolvenza sia lontano o indefinito, il pagamento di un creditore costituisce un atto assolutamente lecito, in quanto non lede alcuna pretesa della massa creditizia.

Tale presupposto - la presenza di uno stato di insolvenza - ben si sposa con la previsione letterale del dolo specifico, secondo cui il soggetto agente deve porre in essere le condotte preferenziali "allo scopo di favorire, a danno dei creditori, taluni di essi".

Di conseguenza, ad assumere rilevanza penale non è il pagamento in sé e per sé considerato, bensì il fine di far conseguire a taluni creditori un indebito vantaggio in spregio della par condicio creditorum (che non può che essere lesa se non in presenza di uno stato di insolvenza); non è invece richiesto anche lo scopo di danneggiare la massa dei creditori.
Tali considerazioni sono state accolte dall'attuale giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito che l'elemento soggettivo del delitto di bancarotta preferenziale "è costituito dal dolo specifico, consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l'accettazione della eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale; ne consegue che tale finalità non è ravvisabile allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile" (in questo senso, Cass. Pen., Sez. V, 5 giugno 2018, n. 54465; Cass. Pen., Sez. V, 5 marzo 2014, n. 16983).

Ora, se si volge lo sguardo alle motivazioni, non resta che prendere atto che la Suprema Corte abbia ripreso (quasi) testualmente i principi appena evidenziati.

Nello specifico, la Cassazione ha mostrato - in prima battuta - di aderire all'orientamento secondo cui "in tema di bancarotta preferenziale, qualora il fallito provveda al pagamento di crediti privilegiati, ai fini della configurabilità del reato, è necessario il concorso di altri crediti con privilegio, di grado prevalente o eguale, rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento e non già di qualsiasi altro credito" (p. 6).

Al contempo, quanto all'elemento soggettivo, la Corte ha chiarito nuovamente che "questo è costituito dal dolo specifico, consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l'accettazione della eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale" (p. 6).

Poste queste premesse, i giudici di legittimità hanno fornito un'importante precisazione: il reato di bancarotta fraudolenta preferenziale "non è ravvisabile allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile" (pp. 6-7).

Tale statuizione ha il pregio, a parere di chi scrive, di mettere in risalto due corollari della fattispecie normativa:

1) perché l'imprenditore possa volere favorire indebitamente taluni creditori, occorre che egli abbia consapevolezza dello stato di insolvenza, quale situazione irreversibile di alterazione finanziaria-patrimoniale, con particolare attenzione al momento di tale consapevolezza;

2) i pagamenti eseguiti nella prosecuzione dell'ordinaria attività d'impresa in un momento in cui lo stato di insolvenza non è noto o, comunque, l'esposizione debitoria appaia ancora come una situazione reversibile (anche grazie alla continuità aziendale), non possono costituire condotta illecita.

Correttamente, dunque, a nostro avviso, la Corte ha censurato - anche con riferimento a tale capo di imputazione - le conclusioni della sentenza d'appello, rilevando ancora una volta che la pronuncia di condanna deduceva "la convinzione dell'avvenuto pagamento di fornitori e dipendenti in via preferenziale, rispetto all'erario, soltanto dal dato oggettivo dall'avvenuta prosecuzione dell'attività della società poi fallita ("poiché certamente fornitori e dipendenti non hanno lavorato senza corrispettivo") senza nulla spiegare circa l'effettività ed entità di detti pagamenti" (p. 7).

Osservazioni metodologiche e procedimentali
La vicenda in oggetto non solo fornisce lo spunto per le predette annotazioni di carattere sostanziale, ma pone altresì in evidenza alcune perplessità di natura procedimentale, sulle quali preme precisare quanto segue.

La tesi accusatoria, avallata dai giudici di appello, non pare a chi scrive adeguatamente istruita sin da principio.

Difatti, l'imputazione per bancarotta semplice patrimoniale presuppone l'accertamento dell'"aggravamento del dissesto", che non può essere presunto in re ipsa dalla mera prosecuzione dell'attività d'impresa del fallito, ma richiede di stabilire con precisione il momento a partire dal quale il fallito si è reso insolvente e l'incisività delle condotte successive sull'incremento dell'esposizione debitoria e/o sul depauperamento delle garanzie patrimoniali. Tali dati di fatto possono essere unicamente ricavati dalla relazione ex art. 33 L.Fall.

In proposito, merita di essere segnalata la prassi del Tribunale di Milano (che consiste in apposite indicazioni fornite al curatore unitamente all'atto di nomina) la quale, in maniera lungimirante, fa decorrere il termine di 60 giorni per il deposito della relazione ex art. 33 L.Fall. non dalla dichiarazione di fallimento (come stabilisce espressamente la norma), ma dal decreto di esecutività dello stato passivo (art. 96 L. Fall.).

Tale maggior termine non solo consente al curatore, che ha avuto modo di analizzare compiutamente tutte le domande di insinuazione al passivo, di fare chiarezza sulla genesi del dissesto, ma consente anche – per quanto qui di nostro interesse – di indicare l'evoluzione dei debiti nel quinquennio antecedente la dichiarazione di fallimento.
A mero titolo esemplificativo, per i debiti di natura erariale, che usualmente popolano i passivi dei fallimenti, il curatore dovrà stratificare il debito erariale e contributivo iscritto a ruolo, suddividendolo in base alle varie annualità, in capitale, interessi sanzioni ecc. Tale debito, come noto, ha natura privilegiata.

Il pregio di tale metodologia operativa consente, una volta identificato il momento da cui il fallito si è reso insolvente, di individuare non solo gli atti posti in essere che astrattamente possano avere aggravato il dissesto (ai fini dell'art. 217, comma 1, n. 4, L. Fall.), ma anche tutte quelle eventuali operazioni che possano aver privilegiato taluni creditori in danno di altri (ai sensi dell'art. 216, comma III, L. Fall.), esattamente individuate nella loro natura e nel loro ammontare.

Da tutto quanto precede, si evince il prezioso – forse anche fondamentale – ruolo che riveste il curatore fallimentare nella fase istruttoria dei reati di bancarotta, inspiegabilmente sottovalutato nel caso in commento.

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