“Salario minimo”, il giudice disapplica il contratto collettivo sotto la soglia costituzionale
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 27711 depositata oggi, accogliendo (con rinvio) il ricorso del dipendente di un cooperativa che lamentava la non conformità all’articolo 36 Cost del suo Ccnl
L’articolo 36 della Costituzione laddove indica che la retribuzione deve essere (oltre che “proporzionata”) “sufficiente” ad assicurare un’esistenza “libera e dignitosa” pone un limite sotto il quale non si può scendere. Un limite sempre sindacabile dal giudice e che dunque prevale anche sulla contrattazione collettiva “che non può tradursi, in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale”. E le cose non cambiano neppure quando sia una legge a rinviare espressamente al Ccnl (come nel caso specifico). Lo scrive la Corte di cassazione, sentenza n. 27711 depositata oggi, accogliendo (con rinvio) il ricorso del dipendente di un cooperativa che lamentava la non conformità all’articolo 36 Cost. del suo stipendio di vigilante (in un supermercato Carrefour) nonostante fosse quello indicato dal Ccnl Servizi Fiduciari. In primo grado il giudice gli aveva dato ragione confermando l’inadeguatezza dell’emolumento. Per la Corte di appello invece la valutazione di conformità del giudice non poteva applicarsi in presenza di contratti collettivi vigendo il principio della libertà sindacale.
Una lettura bocciata dalla Sezione lavoro secondo cui “nell’attuazione dell’art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’ art. 36 Cost ., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata”. Inoltre, ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale “il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe”. Infine, nell’opera di verifica della retribuzione minima adeguata “può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici”, non dovendo però ancorare la propria valutazione, per esempio, alla soglia di povertà fissata dall’Istat annualmente ma accogliendo una nozione più ampia, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, per la quale si deve tener conto “anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”.
Nel caso concreto il lavoratore aveva dedotto che a seguito dell’applicazione, da un cambio di appalto all’altro, di Ccnl sempre diversi e peggiorativi – sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative – si era prodotto il risultato di una diminuzione della retribuzione pur nell’identità dell’attività di lavoro svolta da esso e dalla stessa datrice di lavoro.
La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, prosegue la sentenza, “per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone dunque in ogni caso, ed anche in questa causa in cui il giudice è stato chiamato a sindacare il salario applicato da una cooperativa di lavoro ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l’applicazione”.
L’intervento giudiziale, precisa la Corte, può riguardare non solo il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, “ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”. Dal momento che “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”.
Spetta dunque al giudice di merito “valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost.”, mentre il lavoratore “ deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità”. Al lavoratore dunque “spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione”.
Risulta pertanto, conclude la Suprema corte, che nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale”, come quella in materia di cooperative, non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva; posto che il rinvio va inteso nel quadro costituzionale che impone un minimum invalicabile nel caso concreto. “Sicché una legge (come quella in tema di cooperative ed in ogni altro settore) che imponga la determinazione di un salario minimo attraverso la contrattazione deve essere parimenti assoggettata ad una interpretazione conforme all’art. 36 ed all’art 39 Cost.”.