Famiglia

Separazione, come individuare i criteri di determinazione della misura del mantenimento

La Cassazione esamina il caso di una moglie che aveva trovato solo un lavoro part-time

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di Valeria Cianciolo

Nel caso in esame, la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Rovereto, poneva a carico del marito un assegno di mantenimento di Euro 200,00 mensili. Con l'unico motivo di ricorso, il marito denunciava la violazione e falsa applicazione dell'artivolo 156 cod. civ.
Il Palazzaccio ha rigettato il ricorso del marito: infatti, la moglie aveva reperito un'attività part-time presso un ente privato, e che, "a causa dell'età (56 anni), della prolungata estromissione dall'attività produttiva e della ormai obsoleta formazione", la medesima non era riuscita a reperire altre e più convenienti attività lucrative.

Quale solidarietà nella crisi coniugale?
L'ordinanza recentemente pronunciata dagli Ermellini, (Cass. Civ., Sezione VI - 1, ordinanza, 10 maggio 2021, n. 12329) in tema di assegno di mantenimento, nel confermare il principio ormai consolidato, secondo cui la capacità lavorativa della moglie implica, a determinate condizioni, la fondatezza dei presupposti per ottenere il mantenimento stesso, offre lo spunto per riassumere lo stato della cosiddetta "solidarietà nella crisi coniugale", al fine di accertare se l'assegno di mantenimento debba conformarsi al nuovo indirizzo impresso all'assegno di divorzio ovvero se, la decisione delle Sezioni unite n. 18287/2018 abbia indicato due percorsi diversi ed autonomi per le due differenti forme di contribuzione. Questa considerazione nasce dal fatto che se si scorre la giurisprudenza sul tema, è possibile constatare che l'adozione del parametro del tenore di vita coniugale è criterio di quantificazione dell'assegno, che imprime continuità tra la vita matrimoniale pre e post separazione. Detto questo però, non è poi chiaro quale sia l'interpretazione che possa prevalere tra gli interpreti: talvolta, si assiste ad interpretazioni che sembrano prolungare sotto il profilo patrimoniale, lo stato matrimoniale, (si pensi, a quanto prevede l'articolo 548, 1 co., cod. civ., in forza del quale i coniugi separati, in assenza di addebito, sono e rimangono legittimari e al momento, poco importa che vi siano progetti di riforma tesi ad escludere il coniuge separato dalla suddetta categoria, cfr.: https://www.notariato.it/it/la-riforma-dei-diritti-riservati-ai-legittimari); altre volte, si assiste a concezioni marcatamente tese a vedere nella separazione, l'anticamera del divorzio, con conseguente netta attenuazione di tutti gli obblighi coniugali, in primis quelli di natura patrimoniale, così finendo per iniziare a percorrere la strada già aperta dal revirement sull'assegno di divorzio. Ne è prova una sentenza del 2011 della Cassazione che ha affermato che «ove la convivenza di fatto assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune – analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio – la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto. A quel punto il parametro dell'adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner non può che venir meno di fronte all'esistenza di una famiglia, ancorché di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno, fondato sulla conservazione di esso» (Cass. Civ., Sez. I, sent. 11 agosto 2011 n. 17195 e in senso conforme, anche Trib. Torino, decr. 1 dicembre 2011). L'instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale e, di conseguenza, il presupposto per la riconoscibilità, a carico dell'altro coniuge, di un assegno di mantenimento.

I criteri di determinazione dell'assegno di mantenimento
L'articolo 156 cod. civ., recita testualmente che "il Giudice pronunziando la separazione stabilisce a carico del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia redditi propri."
La ratio dell'assegno di separazione consiste nella sua relazione con i diritti e i doveri scaturenti dal matrimonio: venuta meno la convivenza, gli obblighi di reciproca assistenza possono essere soddisfatti con la periodica erogazione di una somma di denaro che consenta al coniuge, cui non sia addebitabile la separazione e che sia privo di redditi, di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto prima della fine del matrimonio.
Il diritto all'assegno di mantenimento nasce se ricorrono queste circostanze:
1. non addebitabilità della separazione;
2. mancanza nel beneficiario di adeguati redditi, tali da consentirgli di mantenere un tenore di vita equivalente a quello goduto in costanza di matrimonio;
3. sussistenza di una disparità economica tra i due coniugi tenendo anche conto del contesto sociale in cui i coniugi hanno vissuto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità dei bisogni emergenti del soggetto richiedente lo stesso (Cass. civ., 23 ottobre 2012, n. 18175).
Il giudice, dunque, deve accertare il tenore di vita che è, allo stesso tempo, il riferimento per valutare la sussistenza del diritto all'assegno di mantenimento ed anche il criterio per la determinazione del suo ammontare goduto in costanza di matrimonio, «e successivamente verificare se il coniuge istante abbia redditi sufficienti per mantenerlo» (Cass. civ., 16 aprile 2018, n. 9294).
L'assegno di mantenimento, in altri termini, deve essere fissato nella misura sufficiente a permettere al coniuge debole di mantenere, nei limiti del possibile, lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (Cass. civ., 4 dicembre 2017, n. 28938).
Deve poi considerarsi l'incremento del reddito di uno dei coniugi e l'eventuale decremento del reddito dell'altro, anche se verificatosi nelle more del giudizio di separazione (A. Roma, 19 settembre 2007).
Anche l'attitudine al lavoro dei coniugi è un indice della capacità di guadagno che ha il suo peso ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell'assegno di mantenimento. Ma si tratta di un rilievo che va appurato dal giudice caso per caso tenendo conto dell' effettiva possibilità di svolgimento di un'attività retribuita in un determinato contesto ambientale, e non sulla base di considerazioni astratte ed ipotetiche. Ad esempio, nel quantificare l'assegno di mantenimento da riconoscere alla moglie, il Giudice deve valutare se ha un titolo di studio universitario ed un'abilitazione professionale, ma deve anche considerare le sue presumibili difficoltà nell'inserimento nel mondo del lavoro dovute all'età ed alla mancanza di precedenti esperienze professionali (Cass. civ., Sez. VI - 1, Ord., 4 aprile 2016, n. 6427; Cass. civ., Sez. VI - 1, Ord., 20 luglio 2017, n. 17971).
La capacità lavorativa deve essere valutata in termini di concreta esplicabilità di una attività produttiva di reddito che tenga conto di tutta una serie di parametri quali, le attitudini, la qualifica, le competenze acquisite ed anche, la dignità della persona, contestualizzati in un certo ambiente e considerando le possibilità effettive di occupazione offerte dal mercato del lavoro.
Qualora la possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa venga riscontrata in termini effettivi, questa costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell'assegno di mantenimento, e il giudice dovrà tenere conto, non solo dei redditi in denaro, ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica (Trib. Velletri, 21 ottobre 2019: "In tema di separazione personale dei coniugi, l'attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno - qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche - costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell'assegno di mantenimento da parte del giudice, che deve tenere conto non solo dei redditi in denaro ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica.").
La valutazione della capacità lavorativa del coniuge deve, tuttavia, tener conto dell'eventuale accordo tra i coniugi sull'indirizzo della vita familiare in adempimento del quale un coniuge si fosse dedicato esclusivamente al lavoro domestico, eventualmente rinunziando alla propria realizzazione anche sul piano professionale (Cass. civ., 9 giugno 2008, n. 15221).
L'inattività lavorativa non è di per sé indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro "finché non sia provato il rifiuto di una concreta opportunità di occupazione" (Cass. civ., sez. I, 2 luglio 2004 n. 12121). Su questo la giurisprudenza si è espressa chiaramente fissando il principio secondo il quale la idoneità ad attività lavorativa, non sfruttata per il rifiuto di adeguata possibilità di lavoro retribuito, costituisce elemento impeditivo del diritto al mantenimento che va provato dal coniuge che nega il diritto all'assegno del richiedente. Invece, l'onere della prova della impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per il proprio mantenimento mediante l'espletamento dell'attività lavorativa incombe sul coniuge che avanza la domanda (sul punto si veda Cass. civ., 20 marzo 2018, n. 6886).
Nel caso in esame, il motivo di ricorso proposto dal marito era del tutto generico, non avendo evidenziato alcun elemento di prova di segno contrario circa una ipotetica colpa della moglie nel non essere riuscita ad ottenere una modifica del rapporto di lavoro, o nell'avere rifiutato proposte di lavoro più favorevoli.

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