Lavoro

Smart working, dopo l'emergenza la fase "new normal" va governata

Il periodo dell'emergenza Covid-19 ha prodotto un ampio dibattito sullo smart working che ha visto da una parte una sorta di euforia sull'uso di questo strumento, e da un'altra un atteggiamento di assoluto rifiuto

di Francesco Ciampi

Il periodo dell’emergenza Covid-19 ha prodotto un ampio dibattito sullo smart working che ha visto da una parte una sorta di euforia, forse eccessiva, sull’uso di questo strumento, considerato un modello alternativo universale di organizzazione, imperfettibile e panacea di tutti i mali del mondo del lavoro, cui si è contrapposto un atteggiamento, altrettanto eccessivo, da laudatores temporis acti, di assoluto rifiuto, con evidente rimpianto

della immarcescibile pausa caffè e delle chiacchiere tra colleghi.

 

Come sempre la verità sta nel mezzo, con luci e ombre. Nell’emergenza l’utilizzo massiccio del lavoro agile aveva un unico scopo (sicuramente raggiunto): mantenere il più possibile le persone a casa per ridurre il rischio di contagio.

 

La fase emergenziale però ha consentito in pochissimo tempo di utilizzare uno strumento innovativo, già previsto ma non ampiamente applicato, e, quindi, si è trasformata effettivamente in una vera e propria opportunità anche se nella fase emergenziale uno dei problemi incontrati è stato, oltre quello della carenza di infrastrutture, quello di aver calato tale modalità di lavoro in organizzazioni pensate esclusivamente sul lavoro in presenza.

 

Oltre agli evidenti benefici per il lavoratore si realizza con detta tipologia di lavoro, un considerevole risparmio in termini di costi e di impatto ambientale: cospicui i risparmi nei consumi elettrici all’interno degli uffici ed evidente la riduzione nelle emissioni di CO2 grazie alla diminuzione del traffico legato agli spostamenti.

 

Lo smart working ha salvato inoltre molte aziende durante il lockdown e ha permesso - in parte - la continuità lavorativa per alcuni. Prima dell’emergenza sanitaria si contavano circa 570mila lavoratori agili, mentre a maggio 2020 si è arrivati a oltre 4 milioni di lavoratori.

 

Numeri che evidenziano una rivoluzione nelle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e che devono portare a una vera riflessione culturale da parte di tutti gli operatori coinvolti nel mondo del lavoro, dalle aziende ai lavoratori, dalle parti sociali al legislatore.

 

Infine l’emergenza Codiv-19 oltre che a porre nuovamente la questione sotto i riflettori mediatici, ha permesso che lo smart working fosse nuovamente legiferato, anche se con evidenti criticità, attraverso, in prima battuta,

il decreto attuativo del 23 febbraio 2020 n. 6, recante le misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, in questo modo è stata favorita l’adozione dello smart working, attuabile sin da subito e senza accordo preventivo col dipendente.

 

Riguardo agli aspetti problematici, invece, è in primo luogo evidente che lo smart working porti all’isolamento, infatti crea una distanza tra le dinamiche di ufficio e il lavoratore agile. Questo viene normalmente percepito come un aspetto negativo dato che non favorisce lo scambio di idee con i colleghi.

 

Tale aspetto è uno dei punti di maggiore criticità del lavoro agile poiché manca proprio quel contatto che umanamente è necessario anche per pianificare l’aspetto produttivo del lavoro.

 

Come è stato efficacemente osservato, «la tendenza della civiltà tecnologica è quella della smaterializzazione, in fondo a prescindere dai corpi. Se abbiamo ecceduto a volte in una iper-presenza, è necessario vigilare sulla non distruzione della presenza». Occorre riconoscere poi che «la tecnologia è un ambiente che ha in sé l’ambivalenza degli effetti (positivo e negativo): riduce i tempi vuoti, taglia cose inutili e quindi aumenta il controllo, riducendo però anche lo spazio della imprevedibilità (anche positiva).

 

È innegabile che molte aziende useranno i prossimi mesi per stabilizzare la modalità di lavoro agile, che costituirà un new normal . Sono infatti tutte abbastanza concordi sul fatto che non si tornerà più all’epoca pre-

Covid. Oltre l’emergenza, quindi, è il tempo di affrontare il nodo dello smart working: serve indubbiamente una nuova regolamentazione dell’istituto.

 

Altrimenti, nella fase ordinaria, lo strumento potrà anche far emergere tensioni all’interno dei luoghi di lavoro tra chi può fare lo smart working e chi è costretto ad andare in ufficio E se prima dell’emergenza Covid la normativa del 2017 mostrava già delle criticità, a oggi, queste possono dirsi incrementate. Con il confinamento obbligato ed esteso a una grossa parte della forza lavoro, non solo è venuto meno - in molti casi - il principio di alternanza tra prestazione lavorativa interna ai locali aziendali ed esterna - resa in modalità agile - ma anche, come già detto, l’obbligo di predisposizione del “patto” quale modalità di accesso.

 

Quel che appare certo sin da ora è che non può pensarsi a uno strumento valido per tutti, in ogni contesto lavorativo e per ogni tipologia di lavoro. È poi fondamentale disegnare un modello ibrido che contempli sia il lavoro in sede che quello da remoto anche al fine di garantire la crescita delle competenze professionali che trova terreno fertile solo nello scambio quotidiano tra colleghi e che non può essere sempre sostituito da una riunione in video conferenza o da una videochiamata. Nei mesi scorsi, alla fine del lockdown quando si è iniziato a dibattere dello smart working come strumento per affrontare le sfide poste del new normal, il ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, aveva sottolineato la necessità di innovare le regole di un mercato

del lavoro in profonda evoluzione.

 

«Dobbiamo pensare a un nuovo Statuto dei lavoratori, un codice del lavoro molto semplificato che estenda tutele ai lavoratori che oggi non ne hanno - spiegava - C’è anche il tema di come regolare lo smart working, il diritto alla disconnessione e la conciliazione dei tempi di vita».

Il fenomeno del lavoro agile presenta la caratteristica per cui la sua disciplina è fin dall’inizio risultata contesa tra due formanti normativi – la legge e la contrattazione collettiva -, non sempre sviluppatisi in pieno accordo.

 

A scapito del frequente riconoscimento, a livello della contrattazione considerata, del potenziale del lavoro agile anche a vantaggio di una migliore conciliazione delle esigenze di vita con quelle lavorative, emerge nella grande maggioranza dei casi la mancanza di una scelta precisa di categorie di lavoratori destinatari di criteri di priorità. Molto spesso le distinzioni tra quanti possono o non possono essere presi in considerazione per avviare progetti di lavoro agile si fondano solo sulla tipologia contrattuale.

 

Non va inoltre trascurato che, considerando l’insieme dei rapporti di lavoro subordinato, il lavoratore agile tende alla figura del più auto-organizzato tra i subordinati, speculare al “tipo” del collaboratore etero-organizzato che viene considerato come destinatario delle tutele del lavoratore subordinato senza esser definito tale espressamente.

 

Lo smart working che continuerà ad accompagnarci nelle forme attuali probabilmente sino a fine anno, necessiterà indubbiamente di una «dimensione normativa unitaria e durevole» che potrebbe avvenire, sia nel senso di un ritorno tout court alla disciplina ordinaria della legge n. 81 del 2017, sia, come preferibile, tramite una nuova disciplina capace di rafforzare le finalità originariamente preposte e di abrogare quelle - confuse e - inerenti lo stato di emergenza ma anche, se non soprattutto, con un intervento della contrattazione di secondo livello che possa così meglio adattare e conciliare le esigenze dei lavoratori con quelle aziendali.

 

Va quindi individuato un pacchetto di norme di legge che tratteggi i quadro generale della disciplina; un accordo fra le parti che disciplini gli aspetti attuativi di tale modalità organizzativa, lasciando sempre salval’opportunità, come sopra auspicato, di inserire la regolamentazione dellavoro agile in accordi collettivi.

 

Una particolare attenzione dovrà essere prestata al tema del potere di controllo da parte del datore di lavoro, senza delegare a riguardo, come avviene nella normativa del 2017, l’accordo individuale.

 

Si ricorda in proposito che l’articolo 4 della legge n. 300 nella sua nuova formulazione, di cui all’articolo 23 del Dlgs n. 151/2015, rimodula la fattispecie integrante il divieto dei controlli a distanza, nella consapevolezza di doversi tener conto, nell’attuale contesto produttivo, oltre che degli impianti audiovisivi, anche degli altri strumenti «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori» e di quelli «utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa». La legge del 2017 ha in buona sostanza, quindi, recepito e definito in legge l’esito del dibattito giurisprudenziale sorto attorno alla casistica dei controlli cosiddetti “difensivi”. A tal proposito la Cassazione aveva già confermato che le esclusioni poste dal comma 2 dell’articolo 4 si applicano ai controlli, volti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori «quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro». In pratica la giurisprudenza prima e la legge poi stabiliscono che sono legittimi quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore e lesivi del patrimonio aziendale.

 

L’esclusione riguarda proprio l’uso degli strumenti attraverso cui il lavoratore rende la prestazione lavorativa: tale si connota, ancor più peculiarmente, la modalità di svolgimento del lavoro agile.

Il punto critico - come è stato sottolineato dalla dottrina - è che, in base al comma 3 dell’articolo 4 della legge n. 300, «le informazioni raccolte […] sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196». Dall’esame della normativa del 2017, emerge che in quest’ultima manca ogni richiamo al tema della privacy. Va quindi chiarito come il datore possa assolvere all’obbligo - onere di adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, e soprattutto come lo stesso possa assolvere all’obbligo-onere di pubblicizzazione delle regole di condotta e delle fattispecie che possono integrare le fattispecie di infrazioni disciplinari.

 

La ridefinizione di regole dovrà comunque essere effettuata molto attentamente, considerando numerose variabili: la regolamentazione pattizia del lavoro agile, infatti, non deve risultare rispettosa dei soli limiti posti dalla legge di settore, ma anche dei vincoli posti dalla normativa europea, da norme inderogabili di legge e dalla normativa di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©