Società straniere e computo dei dipendenti: rilevano solo quelli impiegati sul territorio italiano
Per i lavoratori assunti da un’azienda straniera (direttamente, o tramite una branch), con limitata presenza di dipendenti sul territorio italiano, la possibilità di invocare la c.d. tutela reale deve ritenersi decisamente limitata a ipotesi residuali
Nel nostro ordinamento, una corretta gestione dei licenziamenti non può prescindere dalla verifica del requisito dimensionale del datore di lavoro. Il controllo della soglia occupazionale rappresenta infatti un passaggio obbligato per diversi aspetti, sia procedurali, sia riferibili alle tutele accordate per un licenziamento dichiarato illegittimo.
Con particolare riferimento all’impianto sanzionatorio, attualmente vige un regime di tutele differenziato, a seconda che l’azienda sia una “piccola” o una “grande” impresa. Tale distinzione si applica sia ai lavoratori assunti pre Jobs Act, sia ai post Jobs Act.
La regola generale - al di fuori dei casi di nullità del recesso e di alcune specifiche previsioni di limitata applicazione - è che per le imprese che non raggiungono i requisiti dimensionali previsti dalla legge, l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato non può superare il limite di sei mensilità.
Diversamente, in caso di applicazione della c.d. tutela reale, la sanzione principale è quella della reintegrazione, il cui campo di applicazione - nel caso in cui il fatto materiale risulti insussistente - è stato oggetto di significativa estensione anche per i lavoratori assunti post Jobs Act, a seguito dei recenti interventi della Corte Costituzionale (sentenza n. 128/2024).
Al di fuori delle ipotesi puramente reintegratorie, l’indennitàeconomica spettante ai lavoratori licenziati dalle c.d. grandi aziende è comunque di gran lunga superiore a quella prevista per le c.d. piccole imprese.
Lacune e incertezze sul riferimento territoriale – Il caso delle grandi aziende straniere, con limitata presenza sul territorio italiano
La disposizione normativa che stabilisce le soglie occupazionali è contenuta nell’art. 18, comma otto, L. 300/1970: il datore di lavoro che (con riferimento alla sede di lavoro del dipendente licenziato) occupi oltre 15 dipendenti per sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, o comunque nello stesso comune, ovvero 60 dipendenti complessivamente considerati, rientra nella c.d. tutela reale.
La norma, tuttavia, non specifica se il limite numerico sia riferito al solo territorio italiano, o se si debbano considerare anche i dipendenti - del medesimo datore di lavoro - dislocati all’estero.
Dubbi interpretativi, quindi, sorgono quando il licenziamento è intimato, ad esempio, da una multinazionale straniera, con pochi dipendenti in Italia.
Tali dipendenti sono spesso assunti dalla sede secondaria (o branch) italiana del Gruppo; tuttavia, non mancano i casi in cui i lavoratori sono assunti direttamente dalla società straniera, in regime – come spesso accade – di telelavoro, con domiciliazione della società (straniera) presso lo studio di un commercialista o consulente del lavoro, al fine di rispettare gli adempimenti in tema fiscale e contributivo, nonché provvedere alle comunicazioni obbligatorie agli enti pubblici.
Più che lecito appare interrogarsi se, in questi casi, ai fini della determinazione della tutela applicabile si debba tener conto della forza lavoro complessivamente occupata anche all’estero - e, quindi, ragionare in termini di verosimile tutela c.d. reale - oppure considerare i soli dipendenti presenti sul territorio italiano (tutela c.d. obbligatoria).
Giurisprudenza più risalente - un primo contrasto
La questione non è certamente nuova per la giurisprudenza, anche di legittimità.
Prendendo le distanze da alcune iniziali pronunce (Cass. n. 5320/1978; Cass. n. 600/1987), la sentenza n. 1324/1987 della Corte di Cassazione ha stabilito che si deve escludere la computabilità degli occupati all’estero, ritenendo che in situazioni giuridiche, quali i rapporti di lavoro, la legge italiana trova applicazione limitatamente alla sede secondaria costituita nel territorio italiano, che è soggetta a specifiche disposizioni nazionali (quali l’obbligo di depositare e iscrivere l’atto costitutivo nel registro delle imprese e di pubblicare il bilancio).
La sentenza n. 1324/1987 ha inoltre evidenziato che l’includere i lavoratori impiegati all’estero, nel computo del personale, creerebbe alcuni notevoli problemi applicativi: ad esempio, imporrebbe alle società estere il rispetto delle norme italiane sulle assunzioni protette. La Corte ha altresì precisato che, diversamente opinando, il giudice italiano si troverebbe a dover qualificare situazioni giuridiche secondo normative straniere, il che condurrebbe a interpretazioni contrastanti con il diritto italiano e potenzialmente sfavorevoli per gli stessi lavoratori, con complicazioni pratiche anche sul piano processuale.
Cass. n. 19557/2016 - i passaggi chiave
In tempi più recenti, la Suprema Corte è tornata sull’argomento, con la sentenza n. 19557/2016, riprendendo i principi enunciati nella sentenza del 1987.
La Corte ha stabilito che la sede secondaria in Italia, pur non avendo personalità giuridica autonoma rispetto alla casa madre, ha una rilevanza propria e deve rispettare le norme italiane relative a vari aspetti, quali l’esercizio dell’impresa e la pubblicità a tutela dei terzi (art. 2508 c.c.). Per tale motivo ha ritenuto che se una sede secondaria è soggetta alla legge italiana al pari di una società costituita nel nostro Paese, anche il requisito occupazionale deve essere considerato con riferimento al solo territorio nazionale. Oltre alle problematiche connesse all’applicazione della soluzione contraria, già evidenziate nel 1987, la Corte ha altresì osservato che, anche dal punto di vista letterale, l’art. 18 contiene riferimenti come il “Comune” o la “contrattazione collettiva nazionale”, che indicano una dimensione prettamente nazionale della norma.
Alla stregua di quanto appena osservato, in caso di prestazione di lavoro in favore di una sede secondaria italiana, che opera quale autonomo centro operativo assoggettato alla legge italiana ai sensi dell’art. 2508 c.c., tale sede è l’unica ad aver rilevanza ai fini del computo occupazionale, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati dalla “casa madre” straniera.
In motivazione, la sentenza ha aggiunto un dettaglio non banale, legato al caso concreto; la Corte ha precisato come tale soluzione dovesse ritenersi ancor più corretta considerando che, in una fattispecie come quella oggetto di contenzioso, era incerto se la società avesse effettivamente una sede secondaria, dato che la dipendente licenziata era l’unica presente in Italia.
Adesione all’orientamento della Cass. n. 19557/2016 - alcune sentenze di merito
Negli ultimi anni, diverse pronunce dei tribunali di merito si sono uniformate all’orientamento sancito dalla Cassazione nel 2016.
Il Tribunale di Milano (sentenza n. 2834/2017) ha affermato che il computo dei dipendenti va effettuato in considerazione del solo territorio italiano, “a fortiori” se il datore di lavoro è sprovvisto di sedi secondarie sul territorio italiano; in senso sostanzialmente analogo si sono espressi il Tribunale di Busto Arsizio (sentenza n. 1615/2019) e, recentemente, il Tribunale di Torino (sentenza n. 733/2024). In particolare, la sentenza del tribunale torinese riguarda proprio il caso di un datore di lavoro straniero, privo di sede secondaria (o branch) sul territorio italiano.
Così ricostruito il quadro giurisprudenziale, se ne ricava un principio di rilevante importanza sul piano dell’applicazione pratica del diritto per i datori di lavoro stranieri (costituiti, dunque, nelle forme di una B.V., GmbH, S.A., etc.): l’esistenza, o meno, di una sede secondaria sul territorio italiano non ha (in sé e per sé) alcun impatto ai fini dell’applicazione della disciplina sul computo dei dipendenti.
Il che, tradotto in termini altrettanto pratici, porta a ritenere del tutto residuale il rischio che l’illegittimità del recesso conduca alla reintegrazione nel posto di lavoro, nei casi in cui i dipendenti presenti in Italia siano pari a poche unità.
Alcune - solo apparenti - dissonanze
Non devono ingannare le decisioni di alcuni tribunali che, pur indirettamente, hanno trattato l’argomento.
La sentenza della Corte di Appello di Milano n. 1597/2014, accertando la sussistenza di un regime di codatorialità tra una società italiana e una straniera e, dunque, l’esistenza di un unico centro di imputazione con oltre 15 dipendenti complessivamente considerati, ha ritenuto che il requisito dimensionale di cui all’art. 18 fosse raggiunto, anche se la società datrice di lavoro formale italiana aveva meno di 16 dipendenti.
Nel giudizio di impugnazione, la Suprema Corte (sentenza n. 622/2017), osservando che la domanda di revisione richiedeva una valutazione di merito (i.e., l’esistenza di un centro unico di imputazione), ha confermato quanto stabilito in appello, senza entrare nel merito della questione oggetto della presente analisi.
La Corte di Appello di Trento, nella sentenza del 23 maggio 2019, n. 23, è giunta alle stesse conclusioni. In un caso relativo al licenziamento dell’unica lavoratrice di una società italiana, il Collegio ha accertato l’esistenza di un unico centro di imputazione tra la società italiana e la controllante straniera, ritenendo raggiunti i requisiti dimensionali e disponendo l’applicazione della tutela reale.
Nelle fattispecie esaminate sono stati conteggiati i dipendenti all’estero ai fini dell’applicazione della tutela reale; tuttavia, le corti territoriali hanno applicato tale criterio di calcolo quale mera conseguenza dell’accertamento del centro unico di imputazione, senza soffermarsi sul carattere transnazionale della vicenda.
Le questioni affrontate dalle Corti territoriali hanno certamente la loro importanza, in alcuni specifici contenziosi, ma non spostano i termini del ragionamento riferibile ai casi in cui, invece, non è necessario alcun accertamento volto alla reductio ad unum di più datori di lavoro, poiché ad essere coinvolta è un’unica impresa, datrice di lavoro straniera – con o senza l’intermediazione di una branch - di un certo numero di dipendenti impiegati sul territorio italiano.
Conclusioni
La possibilità di invocare la c.d. tutela reale deve ritenersi decisamente limitata a ipotesi residuali, per quei lavoratori assunti da un’azienda straniera (direttamente, o tramite una branch), con limitata presenza di dipendenti sul territorio italiano.
Tramite l’attribuzione di un ruolo centrale al criterio della territorialità, la Corte di Cassazione - con la sentenza del 2016 - ha fornito una lettura interpretativa logica e condivisibile, cui si è uniformata la successiva giurisprudenza di merito.
Sostenere la tesi contraria comporterebbe l’applicazione della normativa italiana in contesti spiccatamente internazionali, con scenari probabilmente impraticabili, che non si limiterebbero all’incertezza nella determinazione delle tutele per i licenziamenti illegittimi, ma avrebbero effetti anche in altri ambiti; si pensi, ad esempio, alle criticità relative all’applicazione delle procedure di licenziamento individuale(pre Jobs Act) o collettivo.
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*A cura di Pietro Scianna, Partner, Osborne Clarke, e Hana Akaike, Associate, Osborne Clarke