Sospensione pena, misure cautelari ancora disallineate
La sentenza 41/2018 - con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 656, comma 5, del Codice di procedura penale, nella parte in cui prevedeva, allo scopo di chiedere l’affidamento ai servizi sociali, la sospensione da parte del Pm dell’esecuzione della pena, anche residua, solo se non superiore a tre anni e non a quattro - ha riparato a una vistosa incoerenza, ma ha anche creato una smagliatura nel sistema delle misure cautelari.
La decisione della Consulta è stata motivata dall’esigenza di emendare la situazione sorta dopo che il decreto legge 146/2013 ha elevato da tre a quattro anni il limite di pena detentiva che consente al condannato l’ammissione al beneficio dell’affidamento ai servizi sociali previsto dall’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. Il legislatore, infatti, non ha elevato in modo corrispondente il termine previsto dall’articolo 656 del Codice di procedura penale che, nei casi in cui per la pena da eseguire sia possibile il ricorso alle misure alternative alla detenzione, prescrive che il Pm sospenda l’ordine di esecuzione della detenzione. Il mancato raccordo dei due termini, secondo la Consulta, viola l’articolo 3 della Costituzione.
Le misure cautelari
Il ragionamento dei giudici può essere trasferito anche al regime di applicazione delle misure cautelari. Infatti, in base all’articolo 275, comma 2-bis, secondo periodo, del Codice di procedura penale, non si può applicare la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Questa previsione è stata introdotta dal decreto legge 92/2014 per raccordare il sistema delle misure cautelari con quello dell’esecuzione e per rafforzare il criterio, introdotto con il Codice del 1988, in forza del quale ogni misura deve essere proporzionata, oltre che all’entità del fatto, anche alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata. Non si ammette, quindi, che il bene primario di una persona possa essere intaccato dall’applicazione di misure intramurarie nel corso del processo per soddisfare esigenze cautelari funzionali all’accertamento di reati per i quali potrebbe non essere eseguita una pena detentiva.
Il Codice di procedura penale segue con rigore tale criterio. Lo stesso articolo 275, comma 2-bis, prevede che non si possano applicare la custodia cautelare in carcere o l’arresto domiciliare, se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. E l’articolo 300 stabilisce che la custodia in carcere perda efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, anche se sottoposta a impugnazione, se la durata della custodia già subita non è inferiore all’entità della pena irrogata.
Ma oggi un indagato, che potrebbe essere condannato a una pena inferiore a quattro anni, ma superiore a tre, potrebbe dover subire una custodia in carcere, nonostante la prevedibile ineseguibilità della condanna.
Il fronte delle misure cautelari resta quindi aperto. Ed è verosimile che la Consulta possa essere chiamata a tornare sulla questione, intervenendo su una norma che si pone in contrasto non solo con il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ma anche con l’inviolabilità della libertà personale.