Penale

Spaccio stupefacenti: per la flagranza bastano quantità, detenzione di denaro e attrezzi per la pesatura

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di Giuseppe Amato

Per ritenere la flagranza del reato di detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio non sono necessarie né la contestuale attività di spaccio né l'individuazione dei potenziali acquirenti, potendo la finalità di spaccio essere desunta dalla quantità, qualità e composizione della sostanza detenuta nonché dalla detenzione di denaro contante, anche in rapporto al reddito del detentore, nonché dalla disponibilità di attrezzature per la pesatura o il confezionamento della sostanza. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 43298 del 2018 e da queste premesse, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, la sesta sezione penale ha annullato senza rinvio l'ordinanza con cui il giudice non aveva convalidato l'arresto, sulla supposta inesistenza della flagranza, in una fattispecie in cui gli arrestati erano stati trovati in possesso di una duplice quantità di stupefacente - cocaina e hashish -, di una somma di denaro - 850 euro - nella disponibilità di uno di essi privo di attività lavorativa, di dei telefoni cellulari e di materiale per il confezionamento delle dosi.

È principio consolidato quello secondo cui, in materia di stupefacenti, la valutazione in ordine alla destinazione della droga va effettuata dal giudice di merito, ogni qualvolta la condotta non appaia indicativa della immediatezza del consumo, tenendo conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto e, in particolare, dei parametri indicati nell'articolo 73, comma 1-bis, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 («quantità», «modalità di presentazione», «altre circostanze dell'azione»), che appunto costituiscono criteri probatori idonei a orientare la valutazione del giudice in ordine alla dimostrazione della destinazione «ad un uso non esclusivamente personale», tale da integrare l'illecito penale (cfr. tra le altre, sezione IV, 15 giugno 2010, Mennonna e altro).

Con la precisazione che, ai fini della configurabilità della detenzione illecita ex articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, non è la difesa a dover dimostrare l'uso personale della droga detenuta, ma è invece l'accusa, secondo i principi generali, a dover provare la detenzione della droga per uso diverso da quello personale: infatti, la destinazione della sostanza allo “spaccio” è elemento costitutivo del reato di illecita detenzione della stessa e, come tale, deve essere provata dalla pubblica accusa, non spettando all'imputato dimostrare la destinazione all'uso personale della sostanza stupefacente di cui sia stato trovato in possesso.

In questa prospettiva, qui la Corte ha escluso che tra gli elementi di prova della destinazione dovesse ritenersi necessaria anche la individuazione di «potenziali acquirenti», in un contesto che deponeva oggettivamente già per la destinazione allo spaccio. Del resto, trattavasi di vicenda relativa a convalida dell'arresto, onde l'erroneità della decisione del giudice era rinvenibile anche nell'apprezzato superamento da parte del giudice, che aveva negata la convalida, dei limiti valutativi attribuitigli dal codice di rito: è noto, infatti, che il giudice, in sede di convalida dell'arresto, oltre a verificare l'osservanza dei termini previsti dagli articoli 386, comma 3, e 390, comma 1 del codice di procedura penale, deve controllare solo la sussistenza dei presupposti legittimanti l'eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell'operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza e all'ipotizzabilità di uno dei reati richiamati dal codice di procedura penale, in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all'applicabilità delle misure cautelari coercitive), né l'apprezzamento sulla responsabilità (riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito). E tale operazione, soprattutto, il giudice della convalida, peraltro, la deve compiere con giudizio ex ante, avendo riguardo alla situazione in cui la polizia giudiziaria ha provveduto, senza tener conto degli elementi non conosciuti o non conoscibili dalla stessa, che sino successivamente emersi (tra le tante, sezione III, 15 marzo 2018, Faraci, nonché sezione VI, 28 novembre 2013, Scalici).

Cassazione – Sezione VI penale – Sentenza 1 ottobre 2018 n. 43298

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