Penale

Stupefacenti: no alla «quantità ingente» se il principio attivo è inferiore a 4.000 il valore soglia

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di Giuseppe Amato

La circostanza aggravante della «quantità ingente» di sostanza stupefacente (articolo 80, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309), dopo il novum normativo introdotto a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, non è di norma ravvisabile quando la quantità di principio attivo è inferiore a 4.000 volte (e non 2.000) il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per detta sostanza nella predetta tabella allegata al decreto ministeriale 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata (cfr., invece, sezioni Unite, 24 maggio 2012, Biondi). Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 29 ottobre 2018 n. 49366.

Si tratta di un orientamento minoritario e francamente creativo, secondo cui, per alcune sentenze della Cassazione, a seguito del novum normativo introdotto a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, il parametro di riferimento quantitativo per stabilire la ricorrenza dell'aggravante, in caso di droghe leggere, dovrebbe essere pari a «4.000» il valore-soglia, pur restando sempre la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata (cfr. di recente sezione VI, 13 luglio 2017, Trifu).

In realtà, sembra senz'altro preferibile l'orientamento prevalente secondo cui, in tema di circostanza aggravante dell'ingente quantità di sostanza stupefacente, prevista dall'articolo 80, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, il principio di diritto affermato dalle sezioni Unite (sentenza 24 maggio 2012, Proc. gen. App. L'Aquila e altro in proc. Biondi), in forza del quale l'aggravante non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a «2.000 volte» il valore massimo in milligrammi (valore-soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al Dm 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata, mantiene validità anche dopo la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale.

Infatti, si sostiene convincentemente, il “senso” della decisione delle sezioni Unite è stato quello di trovare un parametro “convenzionale”, non arbitrario o invasivo delle competenze del legislatore, perché basato sull'esperienza giurisdizionale, cui poter ancorare una applicazione della norma tendenzialmente omogenea su tutto il territorio nazionale, conservando ovviamente gli spazi di libertà interpretativa del giudice in ragione delle peculiarità del caso concreto; cosicché, in questa prospettiva, i parametri indicati nel citato decreto ministeriale costituiscono solo un dato oggettivo da cui muovere e non già il presupposto di legittimità del ragionamento probatorio e dimostrativo (sezione IV, 15 novembre 2017, Corrao; sezione IV, 12 ottobre 2016, Palumbo e altro; sezione VI, 6 maggio 2015, Proc. gen. App. Bologna in proc. Perri; sezione VI, 4 febbraio 2015, Berardi).

Quest'ultimo orientamento, in effetti, serve a guidare guida la discrezionalità del giudice, ma nel contempo fa salve le specificità del caso concreto, senza impegnarsi in azzardate ricostruzioni quantitative (cfr. il raddoppio del parametro utilizzato dalla sentenza Biondi) che risultano frutto di una lettura giurisprudenziale priva di sostanziali riferimenti normativi, neppure nel novum introdotto a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale.

Cassazione – Sezione IV penale – Sentenza 29 ottobre 2018 n. 49366

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