Civile

Termine decadenziale per il recupero della compensazione "non spettante" di crediti di imposta: una questione ancora aperta per la Corte di Cassazione

Nell'ordinanza in commento i giudici di legittimità ravvisano una discrepanza nell'orientamento giurisprudenziale, in corso di consolidamento, per cui sussisterebbe una totale fungibilità tra le ipotesi di inesistenza del credito e di non spettanza dello stesso, e il dato normativo che opera, invece, una netta differenziatone tra i casi di indebita compensazione perpetrata mediante crediti inesistenti ovvero non spettanti

di Martina Bettarini, Fabio Spinelli Barrile

Con la recente ordinanza interlocutoria n. 29717, depositata lo scorso 29 dicembre 2020, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione è stata investita della questione – da dibattere alla pubblica udienza ai sensi dell'art. 375 c.p.c. – se, ai fini dell'individuazione del termine decadenziale previsto per l'adozione dell'atto di recupero di crediti di imposta indebitamente compensati, sussista una disciplina differenziata tra le ipotesi di crediti di imposta ritenuti "inesistenti" e quelli ritenuti, invece, semplicemente "non spettanti".

Come ben noto, tali due diversi ipotesi sono soggette ad un differente regime sanzionatorio per effetto delle modifiche apportate all'art. 13 del d.lgs. del 18 dicembre 1997 n. 471 (di seguito, "d.lgs. 471/1997") dal d.lgs. del 24 settembre 2015 n. 158 (di seguito, "d.lgs. 158/2015").

Tale modifica, infatti, avvenuta con lo scopo dichiarato di graduare "nel rispetto del principio di proporzionalità" l'intensità delle sanzioni all'effettiva gravità dei comportamenti tenuti dai contribuenti, ha previsto una sanzione amministrativa più elevata per le ipotesi di utilizzo in compensazione di crediti "inesistenti" (compresa tra il cento e il duecento per cento della misura dei crediti stessi) rispetto a quella prevista per l'utilizzo in compensazione di crediti "non spettanti" (pari al 30 per cento del relativo importo), altresì definendo come credito inesistente quello "… in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all'articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633" .

La comune opinione degli interpreti era che questa medesima contrapposizione tra le due distinte fattispecie fosse presupposta dalle disposizioni che regolano l'adozione dell'atto di recupero del credito indebitamente utilizzato istituito con l'art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 e, in particolare, da quella norma, introdotta con l'art. 27, comma 16, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (di seguito, "d.l. 185/2008"), che ha "esteso" fino al 31 dicembre dell'ottavo anno successivo a quello dell'utilizzo in compensazione il termine per l'adozione dell'atto di recupero "per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell'articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241".

In questa prospettiva, dunque, per il recupero dei crediti di imposta ritenuti "non spettanti" sarebbe rimasto invece fermo il termine ordinario di decadenza fissato al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione previsto per le imposte dirette dall'art. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 e per l'IVA dall'art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.

Senonché, la Suprema Corte ha sorprendentemente adottato un approccio interpretativo molto più rigoroso, sostenendo con una serie di decisioni prese in un breve arco di tempo che "il Decreto Legge n. 185 del 2008, articolo 27, comma 16, conv., con modif., dalla L. n. 2 del 2009, nel fissare il termine di otto anni per il recupero dei crediti d'imposta inesistenti indebitamente compensati, non intende elevare l'"inesistenza" del credito a categoria distinta dalla "non spettanza" dello stesso (distinzione a ben vedere priva di fondamento logico - giuridico), ma mira a garantire un margine di tempo adeguato per il compimento delle verifiche riguardanti l'investimento che ha generato il credito d'imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 43, per il comune avviso di accertamento" (Cass., Sez. Trib., 21 aprile 2017, n. 10112; Cass., Sez. Trib., 2 agosto 2017, n. 19237; e, da ultimo, Cass., Sez. Trib., 30 ottobre 2020, n. 24093).

Ed è in tale contesto normativo e giurisprudenziale che si inserisce, dunque, l'ordinanza interlocutoria in esame, in cui i giudici di legittimità, avendo ravvisato una discrepanza tra l'orientamento giurisprudenziale in corso di consolidamento in seno alla Corte, secondo cui sussisterebbe una totale fungibilità tra le ipotesi di inesistenza del credito e di non spettanza dello stesso, e il dato normativo, che, tanto in tema di sanzioni amministrative tributarie quanto in tema di termini decadenziali, opera una netta differenziatone tra i casi di indebita compensazione perpetrata mediante crediti inesistenti ovvero non spettanti, hanno ritenuto doveroso rimettere la causa alla Quinta Sezione per un maggior approfondimento.

Ne deriva che il rinvio della controversia alla pubblica udienza appare, senza dubbio, meritevole di apprezzamento. La posizione da ultimo assunta dalla giurisprudenza della Suprema Corte ha, infatti, ingenerato non poche perplessità (e preoccupazioni) negli operatori, anche tenuto conto delle rilevanti ricadute che da tale commistione di fattispecie distintamente disciplinate potrebbero conseguire, tanto sotto il profilo sanzionatorio quanto sotto l'aspetto del termine decadenziale applicabile.

Tali perplessità appaiono, innanzitutto, pienamente comprensibili, se si considera che la sostenuta fungibilità delle diverse figure dell'inesistenza del credito e della non spettanza del credito, come opportunamente osservato dall'ordinanza n. 29717 in commento, risulta smentita dallo stesso dato normativo vigente, laddove il d.lgs. 471/1997 e il d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, come novellati dal d.lgs. 158/2015, prevedono espressamente tanto in ambito amministrativo quanto penale, un differente trattamento sanzionatorio per l'utilizzo in compensazione di crediti non spettanti rispetto a quello previsto per l'utilizzo di crediti inesistenti.

Ma a ben vedere, ulteriori incertezze sorgono dall'analisi della disciplina di cui all'articolo 27, comma 16, del d.l. 185/2008 in relazione alla quale si è sviluppato il predetto orientamento giurisprudenziale.

Sul punto, invero, l'esegesi offerta dalla giurisprudenza di legittimità rischia di porsi in radicale contrasto, non soltanto, con il testo della disposizione, laddove stabilisce con chiarezza che il termine decadenziale "lungo" trovi applicazione esclusivamente "per la riscossione dei crediti inesistenti", ma, anche, con la con stessa ratio legislativa sottesa alla norma.

Ed infatti, mediante la previsione di un più ampio termine di decadenza, la finalità legislativa era quella di colpire e reprimere le più insidiose condotte di utilizzazione di crediti inesistenti (allora sanzionate ai sensi del comma 18 del medesimo art. 27, oggi abrogato proprio in seguito all'intervento riformatorio operato dal d.lgs. 158/2015), in cui "dai riscontri sui dati contenuti nei modelli di pagamento unificato relativi alle compensazioni esposte" risultassero "crediti d'imposta non esposti, come obbligatoriamente previsto, nelle dichiarazioni presentate, nonché relativi a periodi di formazione per i quali le dichiarazioni risultano omesse, o nei quali l'attività economica esercitata dai contribuenti risulta essere cessata", e, cioè, una "artificiosa rappresentazione contabile dei crediti in sede di autoliquidazione del debito" idonea ad ostacolare o, comunque, a "rendere infruttuosa l'azione di controllo ai danni dell'Erario" (cfr. relazione illustrativa all'art. 27 cit.).

D'altronde, prima delle recenti pronunce di legittimità, dello stesso avviso si era mostrata anche la stessa Amministrazione finanziaria, laddove, da ultimo, con la Risoluzione n. 36/E del 8 maggio 2018, aveva espressamente affermato che nel caso in cui "il credito inesistente da eccedenze d'imposta sia stato esposto in dichiarazione e successivamente utilizzato, si deve procedere unicamente con l'emissione degli atti tipici di accertamento in rettifica della dichiarazione, da notificarsi entro gli ordinari termini di decadenza, con applicazione della sanzione per infedele dichiarazione" in quanto "il riferimento operato al riscontro dell'esistenza del credito da utilizzare in compensazione mediante procedure automatizzate rappresenta … una condizione ulteriore rispetto a quella dell'esistenza sostanziale del credito ed è volta a evitare che si applichino le sanzioni più̀ gravi quando il credito, fruito in compensazione indebitamente, possa comunque essere "intercettato" mediante controlli automatizzati (circostanza, questa, che priva la condotta del contribuente di quella lesività̀ idonea a giustificare la più̀ grave misura sanzionatoria)".

Per completezza va segnalato che quest'ultimo orientamento di prassi sembra in qualche modo essere stato rimeditato dall'Agenzia delle Entrate. La circolare n. 31/E del 23 dicembre 2020, con riferimento alle contestazioni elevate a fronte dell'utilizzo in compensazione del credito di imposta ricerca e sviluppo, recita infatti che "qualora a seguito dei … controlli sia accertato che le attività/spese sostenute non siano ammissibili al credito d'imposta ricerca e sviluppo si configura un'ipotesi di utilizzo di un credito «inesistente» per carenza totale o parziale del presupposto costitutivo ed il relativo atto di recupero dovrà essere notificato entro il 31 dicembre dell'ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo in compensazione, non rilevando ai fini della violazione sopra richiamata la mera esposizione del credito in dichiarazione annuale".

Di conseguenza, l'Agenzia delle Entrate non solo non sembra più subordinare l'adozione dell'atto di recupero alla circostanza che, come previsto dall'art. 27, comma 16, cit., l'inesistenza del credito emerga a seguito "del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato", estendendo il suo ambito di applicazione anche alle contestazioni emerse a seguito di controlli sulla dichiarazione dei redditi, ma per di più neppure sembra più ritenere che laddove il credito reputato inesistente sia stato esposto nella dichiarazione dei redditi, le contestazioni sulla sua spettanza rifluiscono pur sempre in una contestazione sulla fedeltà di tale dichiarazione, soggette quindi agli ordinari termini di decadenza previsti dall'art. 43 del d.P.R. n. 600/73.

Neppure tale (almeno apparente) revirement appare condivisibile, posto che non solo la ratio dell'art. 27, comma 16, cit., ma anche la sua stessa formulazione letterale consentono l'adozione dell'atto di recupero di crediti inesistenti nel più ampio arco di tempo di otto anni dall'utilizzo alle ipotesi di utilizzazione di crediti esposti per la prima volta soltanto nel modello di pagamento c.d. F24, come peraltro reso evidente dalla disposizione di diritto intertemporale di cui al successivo comma 17 che, appunto, prevede che il più ampio termine "…si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione…", configurando perciò la violazione in commento come una violazione che attiene al versamento dell'imposta e non, invece, alla dichiarazione del presupposto e alla sua liquidazione.

Alla luce delle considerazioni esposte, sembra auspicabile, dunque, che la Quinta Sezione colga l'occasione offerta dall'ordinanza interlocutoria in commento per riconsiderare un orientamento giurisprudenziale, quale quello qui analizzato, il cui consolidamento rischierebbe di legittimare (e, per certi versi, incentivare) la tendenza dell'Agenzia delle Entrate ad estendere a dismisura i confini della fattispecie di "utilizzo di crediti inesistenti" a discapito di quella di "utilizzo di credito non spettante" (che quasi mai viene invocata dagli uffici accertatori), laddove il chiaro intento del legislatore era di concepire la prima come ipotesi residuale ed eccezionale rispetto alla seconda.

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