Lavoro

Tutela contro la discriminazione nei processi di selezione del personale

Il divieto di condotte discriminatorie concerne anche la fase di candidatura del lavoratore, generando criticità gestionali difficilmente superabili dal datore di lavoro

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di Lorenzo Ceraudo*

La Sezione Lavoro del Tribunale di Roma si segnala per un'interessante pronunzia in tema di discriminazione, emessa lo scorso 23 marzo, decidendo in favore di due assistenti di volo che avevano lamentato la mancata assunzione a fronte del loro stato di gravidanza.

Le lavoratrici si erano rivolte al Giudice dopo che la loro candidatura non era stata presa in considerazione da una compagnia aerea di nuova costituzione; al momento della domanda, entrambe erano in stato di gravidanza e ciò, a detta delle stesse, aveva comportato la loro esclusione dalla procedura selettiva, per la quale non avevano neppure ricevuto la corrispondente convocazione; riferivano, a conforto della propria prospettazione, che altre sei dipendenti, a quanto constava, avevano subito il medesimo trattamento, e anche queste ultime erano in stato di gravidanza o di puerperio.

Dall'altro versante, sostenevano che al contrario tutti gli altri candidati selezionati erano stati prontamente assunti, con procedura rapida e priva di particolari formalità.

Le assistenti di volo segnalavano la natura discriminatoria della condotta della compagnia aerea, discriminatorietà che veniva in rilievo ai sensi dell'articolo 27 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, che vieta ‘qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l'accesso al lavoro […], compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale'. A esauriente corollario della disposizione, la norma precisa che una simile discriminazione è vietata anche se è attuata ‘attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza'; questo in quanto, come ha correttamente osservato molti anni or sono la C.G.U.E., ‘un rifiuto d'assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta quindi una discriminazione diretta a motivo del sesso' .

Nella richiesta di accertamento di condotta discriminatoria il lavoratore dispone, come noto, di un notevole vantaggio in termini probatori, diretta espressione della volontà del legislatore di reprimere efficacemente tutte le forme di illegittimo trattamento, anche quando celate dietro lo schermo di prerogative datoriali apparentemente coerenti e prive di intento discriminatorio.

Ai sensi dell'articolo 40 del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, infatti, ‘quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione'.

Di fronte a tale efficacissimo ‘ribaltamento' delle posizioni, risulta per la parte datoriale particolarmente ostico, ove non impossibile, riuscire a sfuggire all'allegazione di aver tenuto – non solo nei casi caratterizzati da patente dolo ma anche nelle fattispecie generatesi in totale buona fede – una condotta nei fatti discriminatoria.

Nel caso affrontato e risolto dal Tribunale di Roma, la difesa della società si fondava su una serie di elementi: (i) la datrice di lavoro non aveva ancora completato il processo di assunzione dei candidati, sicché ben le lavoratrici avrebbero potuto essere prese in considerazione in una successiva ‘tornata' di assunzioni; (ii) essa dava regolarmente impiego a lavoratrici madri; e, comunque, (iii) ignorava lo stato di gravidanza delle candidate.

Orbene, secondo il Tribunale il carattere discriminatorio della condotta va esaminato allo stato della controversia, non risultando rilevante lo stadio della criticata procedura selettiva; procedura, peraltro, comunque giunta a un livello di apprezzabile avanzamento, con centinaia di dipendenti già assunti, tra i quali non figuravano lavoratrici in stato di gravidanza.

Inoltre, sostenere che solo al completamento del piano di assunzioni sarebbe stata ammissibile la doglianza delle ricorrenti equivarrebbe ad introdurre una condizione per l'esercizio dell'azione non contemplata dal diritto e confliggente con il carattere di urgenza proprio dell'azione antidiscriminatoria (seguendo tale linea infatti, paradossalmente una pretesa come quella delle ricorrenti sarebbe stata frustrata anche solo qualora la società – come era del resto sua prerogativa – avesse atteso anni prima di concludere i procedimenti assuntivi).

Anche l'obiezione secondo cui la società impiegava regolarmente lavoratrici madri è stata superata dal Tribunale, posto che l'esame nel caso di specie doveva limitarsi alla verifica della sussistenza di discriminazione nella sola fase selettiva-assuntiva: a tal fine non ha avuto rilievo il fatto che la società avesse assunto un dato numero di lavoratrici già madri, attenendo tale aspetto non al processo di selezione, bensì alle successive scelte gestionali riguardanti le lavoratrici in forza.

Parimenti, a nulla rileva l'assenza di intenzionalità discriminatoria (argomento inevitabilmente e fisiologicamente sempre speso dalle società in contenziosi di questo tipo), posto che, come già sottolineato, la norma non richiede la prova che chi ha posto in essere la condotta contestata lo abbia fatto con fini consapevolmente discriminatori; e del resto, come correttamente osservato dal Tribunale, se si richiedesse al potenziale ricorrente la prova dell'elemento soggettivo di chi pone in essere le condotte discriminatorie, l'onere della prova sarebbe di difficoltà tale da rendere la norma lettera morta e la tutela apprestata dall'ordinamento ben difficilmente azionabile.

Il Tribunale infine, in omaggio alla norma sopra citata, ha valorizzato un importante dato statistico: poiché in base all'indice ISTAT ogni trenta donne in età fertile si verifica una nascita all'anno, e poiché la società convenuta aveva provveduto all'assunzione di ben 412 assistenti di volo, 13,7 di esse avrebbero dovuto essere in stato di gravidanza.

Pur applicando tutti i correttivi del caso (il personale assunto comprendeva anche donne ultracinquantenni) e quindi ipotizzando una riduzione del 50%, avrebbero comunque dovuto essere assunte almeno 6 o 7 donne in gravidanza.

Osservazione che la società convenuta non è stata in grado di smentire in modo ragionevole, e ciò nonostante, come sottolineato dal Tribunale, l'azienda disponesse di tutte le informazioni connesse alla gestione del personale.

A valle della pronunzia, si può concludere rilevando che la normativa antidiscriminatoria pone il datore di lavoro dinanzi a una serie di criticità, che devono sempre essere ben chiare alla funzione di labour compliance. Tuttavia, la struttura della norma e il ‘meccanismo' della tutela sono tali da frustrare già in potenza qualunque eventuale buona prassi o correttivo messo in opera dal lato datoriale.

La totale assenza di rilievo dell'elemento intenzionale da parte del datore porta infatti – con esiti da taluni ritenuti financo iniqui – a ravvisare condotte antidiscriminatorie anche quando la decisione assunta in totale buona fede dall'azienda risponde a un criterio oggettivo ed è volta a soddisfare una coerente esigenza organizzativa, non solo lontanissima da intenti di deteriore trattamento, ma addirittura ignara di potenziali esiti discriminanti.

* Lorenzo Ceraudo, Avvocato e Associate Partner, Rödl & Partner

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