Lavoro

Vaccinazione dei lavoratori: tra obbligo, necessarietà e maggior cautela

Obbligo di vaccinazione e conseguenze del rifiuto, una rassegna della normativa che insiste sull'argomento

di Antonella Carbone*, Giuseppe Musella


Il 2021 è giunto e subito è stato internazionalmente incoronato come salvatore designato a cancellare l'annus horribilis che il 2020 ha costituito.

Al momento sono due i vaccini anti Covid-19 approvati dall'Agenzia europea per i medicinali (EMA), il primo, delle case farmaceutiche BioNTech e Pfizer, autorizzato il 21 dicembre; il secondo, dell'azienda statunitense Moderna, il 6 gennaio. In aggiunta, pare che anche il vaccino messo a punto dalla casa AstraZeneca sia ormai vicino al via libera.

Sul tema dei vaccini, uno dei quesiti che ha sovrastato il panorama della dottrina e la curiosità dei cittadini nell'ultimo mese, attiene all'obbligo vaccinale in chiave lavoristica: ci si chiede se sia consentito all'imprenditore/datore di lavoro, imporre ai propri dipendenti l'inoculazione del vaccino contro il Covid-19.

Il quesito, per quanto interessante, sorvola su un aspetto in parte prodromico e in parte ancillare all'imposizione dello stesso, ovvero se sia necessario che il datore di lavoro imponga tale onere.

Tale domanda risulta più che rilevante per poter fornire una risposta approfondita sul primo tema: a monte, se fosse necessario che il datore di lavoro (generico o individuato in una qualche specifica categoria) imponesse la vaccinazione, questa necessarietà dovrebbe evincersi da una qualche fonte di carattere normativo; a latere, invece, se la fonte individuata risultasse non sufficiente ad imporre la vaccinazione, questa sarebbe comunque motrice di un insieme di comportamenti che il datore di lavoro è sempre tenuto a porre in essere o che, per il principio di maggior cautela (e quindi di tutela anche del proprio interesse economico), è razionale che lo stesso ponga in essere.

Risulta quindi d'obbligo un'analisi della normativa che insiste sull'argomento.

L'art. 32 della Costituzione

L'articolo in oggetto sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, vaccinazioni comprese, salvo quelli per i quali la legge istituisca un obbligo, costituendo pertanto una riserva assoluta di legge.

Tra i diversi casi di obbligo vaccinale, si può ricordare l'obbligo alla vaccinazione antitetanica specificamente prevista dall'ordinamento italiano per alcune categorie di lavoratori con la Legge del 5 marzo 1963 n. 292.

Ad oggi, però, nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19, quindi alcun onere può intendersi in essere in tal senso.

Il quesito che si potrebbe porre è quindi se una delle leggi già esistenti potrebbe integrare e soddisfare la riserva di legge espressa dalla Costituzione. Si ritiene che ciò non sia possibile in alcun modo, dovendo la legge che impone tale obbligo prevedere in maniera specifica quali siano le fattispecie soggettive e il trattamento sanitario di cui si fa obbligo.

E ciò, dunque, per qualsiasi categoria.

Già solo questo dovrebbe soddisfare il quesito di cui in testa, ma per una più approfondita disamina, è consigliabile soffermarsi anche su quanto infra dettagliato.

L'art. 2087 del Codice Civile

Il presente articolo prevede l'obbligo generale di sicurezza a carico del datore di lavoro, per cui: "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".

Ora, è noto come l'art. 2087 c.c. sia una "norma aperta", per cui gli obblighi che essa prevede sono mutevoli, indicizzati al progresso tecnico/scientifico.

Tali obblighi e tale indicizzazione, però, devono avere un freno: se si ragionasse sempre e comunque seguendo il sillogismo per cui "è necessario agire in sicurezza, A è più sicuro di B, pertanto si deve porre in essere A", si arriverebbe a derive di carattere distopico. È proprio a tal fine, peraltro, che la Costituzione opera da freno.

Se fosse più sicuro operare su un macchinario avendo un microchip impiantato nella mano, dovrebbe essere possibile per il datore di lavoro imporne l'impianto solo per soddisfare il criterio di maggiore sicurezza suggerito dall'art. 2087 c.c.?
La risposta, ad avviso di chi scrive, è scontata.

Peraltro, se fosse vero che l'art. 2087 c.c. giustifica ogni trattamento che, in base alla scienza, prevede una maggiore sicurezza (in questo caso riduce le probabilità di contagio) allora non sarebbero più necessarie leggi in materia di sicurezza del lavoro e per la tutela dei lavoratori, tutto potrebbe essere considerato implicito, siccome il datore di lavoro – il quale è tenuto ad assicurare tramite le proprie direttive il rispetto delle norme in materia di igiene e sicurezza – potrebbe far derivare sui lavoratori ogni tipo di obbligo non specificamente previsto dalla legge.

L'art. 20 del TUSL

Il citato articolo prevede, al primo comma, che "Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro".

Questa previsione attiene al luogo di lavoro, ma non inficia e in alcun modo può colpire la sfera personale del lavoratore.

Ricordando il mondo pre-covid, ove lo stoicismo la faceva da padrone, qualora un lavoratore si fosse presentato sul luogo di lavoro con la febbre, il datore di lavoro avrebbe potuto allontanarlo dagli altri per assicurarne il non contagio e imporgli di tornare a casa, rifiutando la prestazione di lavoro. In alcun modo, comunque avrebbe il datore di lavoro potuto obbligare il lavoratore ad assumere alcun medicinale di sorta.

Allo stesso modo, se un lavoratore in vacanza si ammalasse di febbre gialla, il datore non potrebbe imporgli di curarsi, né preventivamente avrebbe potuto imporgli di vaccinarsi: l'imposizione al vaccino contro la febbre gialla è statale, non del datore di lavoro, il quale può unicamente limitarsi ad allontanare il lavoratore, prendere atto della malattia, e, eventualmente, al raggiungimento del periodo di comporto, procedere al licenziamento.

L'art. 279 del TUSL

Altro articolo spesso citato, il 279 del TUSL, riporta come "Il datore di lavoro […] adotta misure protettive particolari […] fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all'agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente […]".

Sorvolando sulla più che dubbia interpretazione fornita da parte della dottrina per cui questa disposizione si applicherebbe anche a condizioni di agenti biologici esogeni e non solo endogeni ("presenti nella lavorazione"), il testo della norma prevede un onere per il datore della messa a disposizione, ma in alcun modo prevede l'obbligo del lavoratore di acconsentire al trattamento sanitario descritto.

Andando in ordine, sulla necessarietà, non può che darsi una risposta negativa: non è in alcun modo necessario per il datore di lavoro imporre la vaccinazione ai propri dipendenti.
In base alla normativa attuale, pertanto, la risposta non può che essere negativa, alcun obbligo vaccinale può essere imposto ai lavoratori.

Come si diceva nell'incipit però, anche se le fonti normative non possono arrivare ad imporre la vaccinazione, queste non sono prive di effetto sulle azioni che il datore di lavoro può porre in essere per l'attuazione del principio di maggior cautela.

Un imprenditore, preso atto della mancanza di necessità, potrebbe comunque essere interessato a richiedere ai propri dipendenti di procedere alla vaccinazione in luce della normativa vigente.

Le sue motivazioni potrebbero essere legale all'art. 2087 c.c. in combinato disposto con la circolare n. 13/20 dell'INAIL – che fornisce istruzioni operative di attuazione dell'art. 42 del D.L. n. 18/20 (Cura Italia) – prevedendo il riconoscimento della tutela infortunistica nei casi accertati di infezione da Covid-19 in occasione di lavoro e la presunzione semplice di origine professionale del contagio (operante nei casi di rischio specifico), od essere legale al voler limitare maggiormente il rischio di dover sostenere i costi per la malattia del dipendente, o ancora potrebbe essere mosso dalla coscienza sociale, volendo spingere per il raggiungimento rapido dell'immunità di gregge.

Quale che ne sia il motore, tale richiesta potrebbe essere effettuata.

Cosa accadrebbe quindi se un lavoratore, a seguito della richiesta del datore di lavoro, si rifiutasse (legittimamente) di vaccinarsi?

Per il singolo lavoratore che non accetti il vaccino (in particolar modo se adducendo motivazioni relative alla propria salute quali, e.g., l'immunodepressione) sarebbe onere del datore di lavoro dimostrare che, in quella determinata situazione e per quelle determinate mansioni, il vaccino configuri una misura indispensabile per la tutela della salute del lavoratore, dei colleghi ed eventualmente dei terzi, e che non vi siano misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti che consentano di mantenere il dipendente su quelle mansioni.

Tale dimostrazione, come evidenziato nella disamina della normativa, risulterebbe impossibile, pertanto alcun tipo di contestazione o sanzione, ivi compreso il licenziamento per giustificato motivo soggettivo od oggettivo, potrà essere previsto per il lavoratore.

Al datore di lavoro permane però l'esercizio dello ius variandi ai sensi dell'art. 2103 c.c. per cui, fatte salve le norme in materia di demansionamento, potrebbe spostare il lavoratore allo svolgimento di altri compiti in situazioni di "pericolo" inferiore ovvero collocarlo in smart working od in telelavoro.

Altre soluzioni plausibili possono essere il posizionamento del lavoratore in aspettativa retribuita (ma si ritiene che tale soluzione debba essere raggiunta in accordo con il lavoratore stesso) ovvero la previsione di incentivi economici alla vaccinazione.

Vista la previsione dell'art. 32 della Costituzione, tale ultima previsione potrà essere raggiunta solo per il tramite di accordi individuali con i lavoratori ovvero di accordi collettivi aziendali raggiunti previa espressa delega del lavoratore.


Tutto quanto analizzato è in capo all'essere, è la normativa vigente.

Per quanto attiene al dover essere, che però resta sul piano del parere personale, la scrivente ritiene che il legislatore dovrebbe attivarsi per imporre l'obbligo vaccinale se non per tutti almeno per gli operatori sanitari e per le categorie maggiormente a rischio.

È più che mai necessario, in una situazione pandemica, in cui il rischio d'impresa non si calcola e lo Stato interviene con quotidiani ristori, che avvenga un contemperamento tra le esigenze datoriali di mitigazione dei rischi e quelle dei lavoratori, i quali non possono vedersi da questi imposti degli obblighi incostituzionali, che deve sostanziarsi in un intervento del legislatore che preveda una vaccinazione obbligatoria per tutti e le modalità di effettuazione della stessa.

Vero è però che lo Stato non può imporre per legge ciò che non può garantire: al momento non esiste la possibilità diffusa di vaccini per tutti e, pertanto, tale obbligo non si ritiene potrebbe essere efficacemente (né legittimamente) essere imposto nel breve periodo, sino a che il numero di vaccini disponibili, quantomeno, non raggiunga un volume sostanzialmente maggiore e capace di soddisfare il fabbisogno nazionale.

L'inerzia del legislatore, però, in nessun caso giustifica una costruzione dottrinale che vada, operando costruzioni ad hoc, ad interpretare la normativa in modo non lineare per giustificare l'esistenza di un obbligo vaccinale che, allo stato, non esiste.

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*Of counsel di Lexalent

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