Vino dealcolato o dealcolizzato: prime riflessioni ed implicazioni giuridiche
Il vino dealcolato può essere chiamato vino o deve assumere, data la diversa (seppur parzialmente) composizione, un’altra denominazione?
Nel corso degli ultimi eventi dedicati al vino si è parlato in maniera crescente dei cosiddetti vini dealcolizzati caratterizzati dalla totale assenza o da un volume alcolometrico ridotto.
Il primo prodotto ad essere stato commercializzato con tale denominazioni è stata la birra e questo mercato, ad oggi, occupa una fetta di non poca rilevanza, con un consumo crescente soprattutto tra i giovanissimi.
A prescindere dal diverso gradimento dei consumatori e dalle opinioni personali, viene però da chiedersi: ma il vino dealcolato può essere chiamato vino o deve assumere, data la diversa (seppur parzialmente) composizione, un’altra denominazione?
La questione è di non poco conto se si pensa all’impatto sui consumatori ed all’attenta informativa che deve essere data su ciò che è contenuto in questi prodotti.
Occorre fare un passo indietro, la riflessione infatti non può che originare dalla definizione di vino data dalla normativa vigente in materia.
Vino è infatti, secondo il Regio Decreto Legge 15 ottobre 1925, n. 2033 (art. 13): “il prodotto della fermentazione alcoolica del mosto di uva fresca o leggermente appassita in presenza o in assenza di vinacce”.
Se dunque attraverso il processo di dealcolizzazione andiamo a sottrarre in tutto o in parte l’alcol prodotto dalla fermentazione, il prodotto può essere ancora definito vino?
Molte sono le riflessioni svolte in questi mesi, soprattutto alla luce di una normativa europea e nazionale che non sono ancora allineate: se da un lato infatti, l’UE ha fornito le proprie indicazioni sulla produzione di vino dealcolizzato, dall’altro lato, troviamo una normativa interna più complessa che, per ora, fatica ad accogliere se non per qualche eccezione sparsa, questo nuovo prodotto.
Il regolamento Ue 2021/2117 ha fornito le indicazioni normative per la produzione di vino parzialmente dealcolato nell’Unione Europea, ponendo un primo distinguo tra due processi:
- la dealcolizzazione totale, riferita a quei prodotti il cui titolo alcolometrico effettivo del prodotto non è superiore allo 0,5%;
- la dealcolizzazione parziale, se il titolo alcolometrico effettivo del prodotto è superiore allo 0,5% e inferiore al titolo effettivo minimo della categoria che precede la dealcolizzazione.
Nell’ambito di questa distinzione viene già posto un primo blocco: per le denominazioni dei vini Dop e Igp è autorizzata unicamente la dealcolizzazione parziale.
Lo stesso regolamento nel considerando n. 40 indica che ““Vista la domanda crescente da parte dei consumatori di prodotti vitivinicoli innovativi che hanno un titolo alcolometrico effettivo inferiore a quello stabilito per i prodotti vitivinicoli nell’allegato VII, parte II, del regolamento (UE) n. 1308/2013, dovrebbe essere possibile produrre tali prodotti vitivinicoli innovativi anche nell’Unione” ma precisa in quello successivo (n.41) che “ tali prodotti non sono mai stati commercializzati come vino ”.
Il medesimo Regolamento indica anche che il prodotto non deve risultare snaturato nella propria composizione organolettica; in altre parole, meno alcol ma stessa percezione (o quasi) al consumo.
Quindi ricapitolando: il vino dealcolizzato può essere prodotto secondo le indicazioni dell’UE, ha un grado alcolico inferiore, deve preservare le caratteristiche organolettiche ma non è mai stato commercializzato come vino.
In Italia, per via di una lunga tradizione vitivinicola e per l’esigenza di tutelare non solo il prodotto ma anche il territorio nel quale viene prodotto, troviamo il Testo Unico della Vite e del Vino (Legge 238/2016) ed i disciplinari che hanno la funzione di regolamentare tutti gli aspetti della produzione di una determinata tipologia di vino, ponendo veti e divieti necessari a garantire la qualità del prodotto e la sua reputazione.
Dunque di fronte ad un’apertura che sembra quasi un via libera dell’Unione , la normativa interna resta più cauta e mantiene (per ora) tutte le regole che fino ad oggi hanno protetto un mercato invidiato in tutto il mondo.
La diversità dell’approccio europeo rispetto a quello nostrano ha sollevato molteplici problematiche
- è fatto divieto per le aziende vitivinicole italiane di conservare negli stabilimenti di produzione l’alcol derivante dal processo di dealcolizzazione, la detenzione non è consentita nemmeno temporaneamente;
- ne consegue che alcuni operatori commerciali importano vino sfuso dealcolizzato dall’estero (con tutte le problematiche derivanti dal dover garantire lo stesso standard in termini di qualità, pur non avendone il diretto controllo sulla produzione);
- i vini dealcolizzati, ad oggi, non possono avere la certificazione biologica e non è possibile produrre dei blend tra le varie qualità;
- ad oggi, addetti del settore segnalano pochi esperimenti di privazione di gradazione alcolica per Bolgheri ed Aglianico volti proprio a verificare il grado di percezione sul consumatore.
Suscita curiosità anche il Decreto di prossima emanazione da parte del Ministero dell’Agricoltura che dovrebbe recepire la normativa comunitaria e delineare una posizione più chiara sui vini dealcolizzati.
Ma tornando al punto di partenza, il vino dealcolizzato può essere definito vino o no? Il dibattito e le riflessioni sono solamente all’inizio.
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*A cura dell’ Avv. Roberta Castaldi, of counsel per Studio Legale Proietti