Lavoro

Violazione dei criteri di scelta nel licenziamento individuale: quali tutele dopo l’intervento della Corte costituzionale

Sussistenza del fatto materiale come ago della bilancia nella determinazione della sanzione per il licenziamento illegittimo

Exclusion from company. Disciplinary violation of system integrity, non-conformist. Inappropriate, incompetent employee. Dismissal. Exit, leave. Psychological pressure, coercion to dismiss.

di Pietro Scianna, e Ilaria Patti*

La sentenza n. 128/2024 della Corte Costituzionale, come noto, ha introdotto importanti novità in tema di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, all’interno di un puzzle di interventi dai contorni ben più ampi e che, a partire dalla sentenza 194/2018, hanno contribuito a smantellare – pezzo per pezzo – gran parte delle novità introdotte dal D.lgs. 23/2015, meglio conosciuto, anche tra gli addetti ai lavori, come “Jobs Act”. 

In estrema sintesi, la Corte ha stabilito che le ragioni poste alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non sono sindacabili nel merito e, del resto, sarebbe stato difficile sostenere il contrario, tenuto conto della pluridecennale evoluzione giurisprudenziale attorno all’applicazione dell’art. 41 della Costituzione; tuttavia, secondo la Corte, è essenziale che il fatto materiale posto a fondamento del provvedimento datoriale – ossia, pur con qualche semplificazione, la soppressione del posto di lavoro - sia effettivamente sussistente, al fine di escludere la reintegrazione in servizio del lavoratore vincitore nel giudizio sull’impugnazione del recesso.

La Consulta ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.lgs. 23/2015, nella parte in cui non prevede il diritto del lavoratore alla reintegrazione, laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; diversamente, si avrebbe un’irragionevole differenziazione rispetto alla disciplina applicabile al licenziamento disciplinare, che prevede la reintegra se l’addebito (anche qui, inteso come fatto materiale) si rivela insussistente.

Il “fatto materiale”, quale presupposto necessario per l’applicazione della tutela reintegratoria, è insomma il protagonista dell’intervento della Corte Costituzionale, che cancella dall’impianto del diritto del lavoro uno dei pochi dogmi rimasti intatti fin dal 2015, ossia l’esclusione del rimedio della reintegrazione, nei casi di illegittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, per i soggetti ricompresi nell’ambito di applicazione del Jobs Act.

Rimane tuttavia spazio per la tutela esclusivamente indennitaria, secondo le parole della stessa Corte, nei casi in cui il datore di lavoro proceda all’effettiva soppressione della posizione lavorativa, ma fallisca nell’applicazione del c.d. obbligo di repêchage, ossia nell’offerta al lavoratore di posizioni alternative, anche di categoria o livello inferiore, se disponibili nell’organizzazione aziendale. In questi casi, il fatto materiale è da ritenersi sussistente, mentre il vulnus attiene ad un differente profilo di illegittimità del recesso, sanzionabile solo in termini economici; ergo, indennità ricompresa tra 6 e 36 mensilità, ma niente possibilità di rientrare in servizio per l’ex dipendente, pur vittorioso in giudizio.

L’individuazione del lavoratore destinatario del licenziamento – l’applicazione dei criteri di scelta quale espressione del principio di correttezza e buona fede

Muovendo da queste premesse e, in particolare, dall’analisi del rimedio applicabile al licenziamento illegittimo a seconda della sussistenza, o meno, del fatto materiale, rimane un punto apparentemente scoperto nel ragionamento della Corte, relativo ad una possibile ulteriore ipotesi di illegittimità (ma non nullità) del licenziamento, ossia quella causata dall’errata scelta del lavoratore destinatario del recesso.

Il riferimento è all’ormai più che consolidato orientamento giurisprudenziale che impone, nei casi di licenziamento individuale per g.m.o., l’applicazione dei criteri di correttezza e buona fede nell’individuazione dei lavoratori da licenziare, di fatto estendendo – con il richiamo alla verifica dell’anzianità di servizio e dei carichi familiari tra lavoratori impiegati in mansioni omogenee e fungibili – l’applicazione di quei criteri scelta che, norme alla mano, dovrebbero trovare spazio solo con riferimento ai licenziamenti collettivi, in quanto “standard particolarmente idonei a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale” (ex multis, Cass. n. 16856/2020). Seppur in vari casi la giurisprudenza si sia premurata di precisare che i predetti criteri “non vincolano in modo rigido l’esercizio del potere datoriale, bensì rappresentano una direzione orientativa per la valutazione giudiziale” (tra le molte, Corte di Appello di Firenze, 7 luglio 2023, n. 440), rimane assodato il fatto che la verifica preliminare, demandata al datore di lavoro al momento del recesso, sia in gran parte basata sulla verifica dell’anzianità di servizio e dei carichi familiari dei lavoratori “comparabili, se non altro in ragione della loro oggettività e, dunque, maggiore difendibilità in giudizio.

I potenziali casi sono innumerevoli, e di concreta applicazione quotidiana: si pensi al classico taglio dei costi del personale dipendente, attuato dal datore di lavoro mediante la soppressione di una posizione lavorativa all’interno di un team costituito da più lavoratori, tutti dediti alle medesime attività e, dunque, tra loro fungibili. In queste ipotesi, il datore di lavoro deve conformarsi a criteri oggettivi nella scelta del lavoratore in esubero, finalizzati ad evitare che il licenziamento si traduca in un arbitrario “cherry picking”; all’esito, i principali candidati alla cessazione del rapporto di lavoro saranno, di regola, i lavoratori con minore anzianità di servizio (“last in, first out”), pur con tutte le complicazioni relative alla congiunta verifica di eventuali carichi familiari, nonché di possibili cause di esclusione della facoltà di recesso (a titolo esemplificativo, la presenza di figli di età inferiore ad un anno, l’applicazione delle tutele per i lavoratori appartenenti alle categorie protette, etc.).

Proprio in ragione della - tutt’altro che meramente teorica - rilevanza della questione, occorre allora chiedersi se le novità apportate dalla Corte Costituzionale all’impianto normativo del c.d. Jobs Act, incidano anche su queste fattispecie e, in particolare, dove si collochi l’eventuale illegittimità del licenziamento per violazione dei citati principi, rispetto alla dicotomia tra il rimedio reintegratorio e quello puramente indennitario.

Ebbene, a chi scrive sembra senz’altro lecito ritenere che, tra le due opzioni sul tavolo, sia quella esclusivamente indennitaria, ad essere la più convincente.

In un licenziamento caratterizzato dall’errata scelta del lavoratore destinatario del recesso, la sussistenza del fatto materiale è infatti dimostrabile mediante la prova dell’effettiva riduzione di personale, ossia della mancata assunzione di lavoratori nello stesso ruolo e con le medesime mansioni; mentre il mancato rispetto dei criteri di scelta non fa venir meno la premessa quantitativa (riduzione di un posto di lavoro) configurando, tutt’al più, una violazione di natura qualitativa (violazione dei principi di correttezza e buona fede), in maniera non dissimile al ragionamento che la Corte espone in materia di repêchage.

Alla data di redazione del presente contributo, sembra che l’unica decisione di merito applicativa della sentenza della Corte Costituzionale, in un caso di errata scelta del lavoratore destinatario del licenziamento, sia la decisione del Tribunale di Taranto, Sez. Lavoro, n. 1754 del 19 luglio 2024, che ha interpretato il nuovo quadro normativo conformemente alla tesi sopra esposta, condannando il datore di lavoro (che aveva dimostrato la sussistenza delle ragioni a sostegno del recesso, ma non la corretta applicazione dei criteri di scelta) alla sola indennità risarcitoria.

Conclusioni

In conclusione, appare ragionevole ritenere che, nel caso di licenziamento individuale per ragioni oggettive dichiarato illegittimo per violazione dei canoni di buona fede e correttezza nella scelta del lavoratore in esubero, non si applichi la tutela reintegratoria, in linea con l’intervento della Corte Costituzionale secondo cui tale rimedio, per i lavoratori che rientrano nel Jobs Act, è riservata ai - soli - casi in cui il fatto materiale, posto a fondamento del licenziamento, non sussiste.

Quando invece il fatto sussiste, ma il licenziamento è illegittimo per altre ragioni - come la violazione dell’obbligo di repêchage e/o, per l’appunto, dei criteri di scelta - la tutela deve ritenersi meramente indennitaria e, pertanto, ricompresa tra 6 e 36 mensilità.

Al netto della richiamata sentenza del Tribunale di Taranto, sarà importante verificare l’interpretazione delle nuove indicazioni provenienti dalla Consulta, da parte della giurisprudenza, operazione peraltro non nuova per i nostri Giudici del lavoro, anche e soprattutto con riferimento alla disciplina del Jobs Act, ormai in gran parte affossata ed i cui i tratti - quelli ancora visibili - vanno sempre più somigliando a quelli che caratterizzano l’art. 18, se non altro per quanto attiene allo spazio che, a suon di colpi inferti dalla Corte Costituzionale, ha guadagnato il rimedio della reintegrazione.

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*A cura di Pietro Scianna, Partner, Osborne Clarke, e Ilaria Patti, Associate, Osborne Clarke

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