Penale

Violenza sessuale anche se la resistenza è minima

La Corte di cassazione, sentenza n. 4199 depositata oggi, torna sul tema affermando che “non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma che tale volontà risulti coartata dalla condotta dell’agente”

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di Francesco Machina Grifeo

La violenza sessuale sussiste anche quando il rapporto è consumato anche solo approfittando dello stato di “prostrazione, angoscia o diminuita resistenza” in cui la vittima è ridotta. Lo ha chiarito la Cassazione, con la sentenza n. 4199 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo condannato tra l’altro per violenza sessuale ai danni del coniuge.

La vittima, si legge nella decisione, “aveva deciso di dormire separata dal marito, proprio per evitare i rapporti sessuali. Invece, l’imputato di notte si recava nella sua camera - dove la moglie dormiva con le figlie - e insisteva per dei rapporti sessuali; la donna gli manifestava il suo dissenso ma l’imputato insisteva e la donna per evitare di farlo adirare e di svegliare i figli acconsentiva ai rapporti sessuali”. “La donna - prosegue la decisione - non urlava in quanto avrebbe coinvolto nei fatti i figli che dormivano”.

Sul punto afferma la Corte deve confermarsi la costante giurisprudenza in tema di reati sessuali, secondo la quale ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. “non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma che tale volontà risulti coartata dalla condotta dell’agente”. “Né – prosegue - è necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall’inizio sino al congiungimento, essendo sufficiente che il rapporto non voluto sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta”.

Questa linea della Suprema corte si è manifestata in un caso in cui la persona offesa, “pur piangendo e manifestando il proprio dissenso, non aveva frapposto alcuna opposizione fisica al rapporto sessuale impostole dal proprio convivente, nel timore derivante da un violento colpo infertole dall’imputato assieme all’intimazione a seguirlo in camera da letto, e nella preoccupazione di non svegliare con le proprie urla il figlio che dormiva nella stanza attigua”. Un caso dunque per diversi aspetti sovrapponibile a quello deciso oggi dalla Suprema corte.

Del resto la Corte di appello, afferma la Cassazione, aveva dato conto con esauriente motivazione delle ragioni che l’avevano portata a ritenere attendibile la parte offesa. Nei reati sessuali, prosegue il ragionamento, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, “è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria”.

Le dichiarazioni della persona offesa, dunque, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Il giudice dunque dovrà indicare “le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata”.

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