Il CommentoPenale

231 e reati tributari, paralisi applicativa della causa di non punibilità ex articolo 13 Dlgs 74/2000

L'introduzione dei reati tributari di matrice dichiarativa – tra i reati presupposto 231 – rischia di minare l'operatività dell'art. 13 D.lgs. 74/2000, strumento premiale per antonomasia del sistema penal-tributario italiano

di Andrea Puccio e Giulia Bellini*

Nell'ambito della progressiva opera di ampliamento, da parte del legislatore, delle maglie della responsabilità amministrativa da reato degli enti, dapprima il D.L. 26 ottobre 2019 (convertito con modifiche nella L. 157/2019) e poi il successivo D.lgs. 75/2020 hanno segnato l'introduzione, tra i reati presupposto del D.lgs. 231/2001, di alcune fattispecie di delitti tributari, oggi previste dall'art. 25 quinquiesdecies .

Tali modifiche normative, se da un lato hanno assestato un duro colpo ad una delle manifestazioni più tipiche della criminalità d'impresa, dall'altro, nella loro applicazione pratica, hanno finito per minare – ogni qual volta i reati tributari di matrice dichiarativa siano commessi nell'interesse o a vantaggio dell'ente - l'operatività dell'art. 13 D.lgs. 74/2000, strumento premiale per antonomasia del sistema penal-tributario italiano.

Il secondo comma dell'art. 13, infatti, esclude la punibilità dell'autore dei reati di cui agli artt. 4 e 5, nonché – a seguito della modifica apportata dalla L. 157/2019 – di quelli previsti dagli artt. 2 e 3, al ricorrere di una duplice condizione:
• che i debiti tributari (inclusi sanzioni ed interessi) siano stati estinti – dal reo o da terzi - mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione di quella relativa al periodo d'imposta successivo; e
• che il ravvedimento o la presentazione della dichiarazione siano intervenuti prima di aver avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche, dell'inizio di attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali in relazione ai medesimi fatti.

L'operatività di tale disposizione normativa, estremamente lineare, presenta, tuttavia, un punto di rottura nel coordinamento tra la responsabilità penale delle persone fisiche e quella amministrativa degli enti, vale a dire nei casi in cui a commettere i delitti dichiarativi è il legale rappresentante di un'impresa.

Nella normalità delle situazioni, tale soggetto pone in essere gli illeciti tributari non per un proprio tornaconto, bensì nell'interesse e a vantaggio dell'impresa che rappresenta, per farle, cioè, illecitamente conseguire un risparmio d'imposta.

È ben possibile che, in tali ipotesi, dopo aver commesso il reato e prima di venire a conoscenza di eventuali accertamenti fiscali o procedimenti penali a proprio carico, il legale rappresentante decida – proprio alla luce dell'opportunità offertagli dall'art. 13 - di non "sfidare la sorte", preferendo, piuttosto, regolarizzare la posizione contributiva dell'impresa con l'Erario ed evitare conseguenze spiacevoli per la propria persona sul piano penale.

Se è vero che per il legale rappresentante la causa di non punibilità in parola, ispirata ad una logica riscossiva, è una previsione di grande favore, lo stesso non può, però, dirsi per l'impresa che ha conseguito il risparmio d'imposta.

Nonostante l'identità del fatto storico genetico dei due tipi di responsabilità, infatti, il trattamento di favore previsto per la persona fisica dalla disposizione normativa in parola non può essere esportato all'impresa.

La ragione di ciò risiede nel fatto che il "sistema 231" si fonda sul principio dell'autonomia della responsabilità dell'ente: ai sensi dell'art. 8 D.lgs. 231/2001, infatti, l'impresa può essere ritenuta responsabile – e, conseguentemente, sanzionata – anche quando la persona fisica autrice dell'illecito penale non viene indentificata, non risulta imputabile o il reato si è estinto per ragioni diverse dall'amnistia, ivi comprese, quindi, le cause di non punibilità.

Già la Relazione Ministeriale al D.lgs. 231/2001 aveva reso chiara tale impostazione, sancendo che "le cause di estinzione della pena […], al pari delle eventuali cause di non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest'ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all'ente, non escludendo la sussistenza di un reato" .

Tale principio è stato, peraltro, ribadito dalla Corte di Cassazione, che, chiamata più d'una volta a pronunciarsi sull'applicabilità all'ente della causa di non punibilità della c.d. "particolare tenuità del fatto", prevista (per le persone fisiche) dall'art. 131 bis c.p., ha sempre negato la percorribilità di tale via proprio sulla scorta della citata concorrenza ed autonomia dei due titoli di responsabilità .

Per l'ente, quindi, l'eventuale, tempestivo, pagamento del debito tributario, può al più avere efficacia attenuante della sanzione pecuniaria ai sensi dell'art. 12 D.lgs. 231/2001, ma non esime in alcun modo l'impresa dalla contestazione dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25 quinquiesdecies.

Ben si comprende, allora, come nei casi in cui il legale rappresentante abbia commesso il delitto dichiarativo nell'interesse e a vantaggio dell'ente per cui opera, l'art. 13 finisca per generare un vero e proprio conflitto di interessi fra tali soggetti.

Se, infatti, l'estinzione motu proprio del debito con il fisco può mettere un punto fermo al rischio di coinvolgimento del legale rappresentante in un procedimento penal-tributario, tale adempimento costituisce per l'ente una vera e propria autodenuncia, un'ammissione di responsabilità molto rischiosa – oltreché economicamente dispendiosa - perché suscettibile di dar luogo ad una condanna dello stesso.

In tale scenario, l'impresa ha, quindi, nella generalità dei casi, tutto l'interesse a non farsi parte attiva dell'emersione di condotte criminose realizzate al proprio interno, bensì a restare inerte, confidando di non cadere nella rete delle verifiche del fisco.
Tale posizione, però, finisce per impedire al legale rappresentante dell'ente di ottenere la non punibilità per il delitto dichiarativo commesso, esponendolo al rischio di incorrere in un procedimento penale.

Per avere accesso al beneficio in parola, infatti, la persona fisica necessita di una cooperazione attiva dell'ente: stante l'elevato ammontare delle imposte dovute dalle imprese, il peso economico dell'estinzione del debito tributario e delle correlative sanzioni non può che pesare sulla società.

Il mancato pagamento, da parte dell'impresa, dell'imposta evasa, provoca, dunque, un'inevitabile paralisi applicativa della causa di non punibilità di cui all'art. 13 nei confronti del legale rappresentante dell'ente.

Tale risultato, frutto, evidentemente, di una scarsa accuratezza nella ponderazione dei riflessi prodotti dall'introduzione dell'art. 25 quinquiesdecies sul sistema dei reati tributari, non può che ritenersi irragionevole e controproducente, soprattutto sotto il profilo del D.lgs. 231/2001.

La cooperazione dell'ente, strumento fondamentale nella lotta alla criminalità di impresa, lungi dal venir premiata, finisce, infatti, per ritorcersi contro di esso, in un cortocircuito di sistema che, in ultima analisi, neutralizza la finalità riscossiva che aveva ispirato l'introduzione dell'art. 13.

È, dunque, auspicabile che il legislatore intervenga a porre rimedio a tale situazione, ridisegnando i rapporti tra causa di non punibilità dei delitti tributari dichiarativi e responsabilità degli enti.

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*A cura dell'Avv. Andrea Puccio, Founding Partner e Avv. Giulia Bellini, Associate - Puccio Penalisti Associati