Penale

Dpcm incostituzionale (ed incompatibile con lo stato di diritto): il reato di falso in autocertificazione non sussiste

di Aldo Natalini

Non è configurabile il delitto di cui all'articolo 483 del Cp a carico di abbia dichiarato falsamente di trovarsi in una delle condizioni giustificanti gli spostamenti all'interno del proprio Comune ai sensi del Dpcm dell'8 marzo 2020, essendo detto Dpcm illegittimo per violazione dell'articolo 13 della Costituzione e come tale va disapplicato da parte del giudice penale ai sensi dell'articolo 5 della legge sul contenzioso amministrativo (n. 2248/1968, Allegato E). Così il Gip del Tribunale di Reggio Emilia che, con sentenza n. 54/2021, richiesto di emettere un decreto penale di condanna a carico di due imputate in ordine al delitto di cui all'articolo 483 del Cp – per aver falsamente autocertificato ragioni di salute, risultate poi inesistenti – le ha prosciolte ex articolo 129 del Cpp perché il fatto non sussiste.

Per il giudice di prime cure, il provvedimento presidenziale emanato lo scorso anno nella prima ondata pandemica – ma le motivazioni sembrano generalizzabili a tutti i Dpcm successivi (ivi compreso il vigente Dpcm del 2 marzo scorso) – deve ritenersi contrastante con la Costituzione perché un Dpcm non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge. Di qui la ravvisata violazione del principio di riserva di legge e di giurisdizione di cui all'articolo 13 della Costituzione in forza del quale limitazioni alla libertà personale possono avvenire solo in base ad un atto motivato dell'Autorità giudiziaria (e non già in base ad un atto amministrativo) e «nei casi e nei modi previsti dalla legge» e, dunque, con provvedimento di natura singolare, essendo di contro precluse limitazioni generalizzate e assolute della libertà personale come è l'obbligo di permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini.

Peraltro, il divieto di spostamento dall'abitazione (fatti salvi i casi consentiti) – scandisce ancora il decidente – si risolve non già in una mera limitazione della libertà di circolazione di cui all'articolo 16 della Costituzione, ma in una conculcazione – preclusa all'Autorità amministrativa, financo a quella di vertice (Presidenza del Consiglio dei ministri) – dell'inevitabile diritto di libertà personale. Conseguentemente – conclude il Gip reggiano, "virando" infine sulla categoria dell'inoffensività – previa disapplicazione in parte qua della norma secondaria contrastante con il dettato costituzionale, la falsa rappresentazione delle condizioni di liceità del comportamento comunque consentito risulta priva di rilevanza offensiva, siccome riconducibile alla categoria del "falso inutile".

Al di là di quest'ultimo passaggio – invero non perspicuo rispetto alla propugnata tesi dell'illegittimità (dichiarata incidenter tantum) dell'atto amministrativo-presupposto (senza che fosse necessario il ricorso alla categoria del falso innocuo, che anzi sembra "sporcare" la ratio decidendi) – la sentenza in esame è di sicuro interesse perché si inserisce nel solco di un dibattito (non solo politico ma anzitutto) costituzionale sulla legittimità dello strumento del Dpcm suscettibile di produrre effetti anche sul terreno del diritto penale. Dibattito, peraltro, tutt'ora attuale, alla luce della perdurante vigenza degli obblighi autocertificatori in forza del Dpcm in vigore (e delle preannunciate, imminenti restrizioni governative che dovrebbero essere adottate nel corso del prossimo consiglio dei ministri).

Il Dpcm 8 marzo 2020 in riferimento al Dl n. 6/2020
A venire in rilievo nel caso di specie era il Dpcm dell'8 marzo 2020, emanato lo scorso anno, il giorno prima che l'intero Paese fosse "cinturato" (sarebbe avvenuto col successivo Dpcm dell'11 marzo 2020, che estese le medesime misure di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 all'intero territorio nazionale).
Si tratta del provvedimento presidenziale che istituì le zone rosse nell'intera Regione Lombardia e nelle province del Nord Italia (allora) più colpite dal virus (Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia): l'articolo 1 del Dpcm conteneva il divieto di spostamento delle persone in entrata ed in uscita dai suddetti comuni, se non in presenza di comprovate esigenze lavorative, di necessità o di salute, da comprovare mediante autocertificazione.
Questo atto presidenziale trovava la propria base giuridica nel (contestato) Dl n. 6/2020 (poi abrogato dal Dl n. 19/2020, che ha in parte sanato alcune problematicità), nato come provvedimento volto ad introdurre misure (solo) su base locale. La successiva estensione di dette misure all'intero territorio nazionale – disposta col citato Dpcm dell'11 marzo 2020 (e non in sede di conversione del decreto, che, frattanto, era già intervenuta, NdA) – ha indotto la dottrina, anche penalistica, a dubitare della legittimità del primigenio decreto legge (vedi G.L. Gatta, in «Sistemapenale.it» del 16 marzo 2020).
Ma le motivazioni esposte nel corpo della sentenza in commento non attengono a questo specifico aspetto – venendo in rilievo, nella specie, restrizioni disposte nelle originarie "zone rosse" del nord Italia, in aderenza, quindi, alla primigenia legislazione emergenziale – ma hanno portata assai più ampia (talché, se condivise dalla futura giurisprudenza di merito, potrebbero essere mutuate in parte qua anche per tutti i successivi Dpcm, anche quelli emanati ai sensi dei successivi Dl n. 19/2020 e Dl n. 33/2020).).

Le motivazioni: obbligo assimilabile alla permanenza domiciliare
Secondo la sentenza in commento – la prima edita sul fronte della giurisprudenza (di merito) penale – tale norma amministrativa, «stabilendo un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, l'obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all'esito del giudizio (ovvero, in via cautelare, in una misura di custodia cautelare disposta dal Giudice, nella ricorrenza dei rigidi presupposti di legge, all'esito di un procedimento disciplinato normativamente), in ogni caso nel rispetto del diritto di difesa. Sicuramente nella giurisprudenza è indiscusso che l'obbligo di permanenza domiciliare costituisca una misura restrittiva della libertà personale. Peraltro, la Corte Costituzionale ha ritenuto configurante una restrizione della libertà personale delle situazioni ben più lievi dell'obbligo di permanenza domiciliare come, ad esempio, il "prelievo ematico" (sentenza n. 238/1996) ovvero l'obbligo di presentazione presso l'Autorità di Pg in concomitanza con lo svolgimento delle manifestazioni sportive, in caso di applicazione del DASPO, tanto da richiedere una convalida del Giudice in termini ristrettissimi. Anche l'accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero è stata ritenuta misura restrittiva della libertà personale, con conseguente dichiarazione d'illegittimità costituzionale della disciplina legislativa che non prevedeva il controllo del Giudice ordinario sulla misura, controllo poi introdotto dal legislatore in esecuzione della decisione della Corte Costituzionale; la disciplina sul trattamento sanitario obbligatorio, ugualmente, poiché impattante sulla libertà personale, prevede un controllo tempestivo del Giudice in merito alla sussistenza dei presupposti applicativi previsti tassativamente dalla legge: infatti, l'articolo 13 della Costituzione stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su «...atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; primo corollario di tale principio costituzionale, dunque, è che un Dpcm non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge; secondo corollario del medesimo principio costituzionale è quello secondo il quale neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l'obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, posto che l'articolo 13 Costituzione postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto, in osservanza del dettato di cui al richiamato articolo 13 della Costituzione».
A questa stregua, «poiché trattasi di Dpcm, cioè di un atto amministrativo, il giudice ordinario non deve sollevare questione di legittimità costituzionale ma deve procedere, direttamente, alla sua «disapplicazione dell'atto amministrativo illegittimo per violazione di legge (costituzionale)», ai sensi dell'articolo 5 della legge sul contenzioso amministrativo n. 2248/1865, Allegato E.
Per il Gip reggino, in definitiva, in forza del decreto presidenziale disapplicato, «ciascun imputato è stato "costretto" a sottoscrivere un'autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima».

I precedenti sul fronte della giurisprudenza di merito
La "clamorosa" decisione odierna – la prima, a quel che consta tra quelle edite, in materia penale – segue una già consistente serie di decisioni di altre magistrature merito che, sia in sede civile che amministrativa, avevano già vagliato incidenter tantum la costituzionalità dei Dpcm "pandemici" giungendo ad analoghe valutazioni di incostituzionalità.
In materia locatizia, si segnala l'indirizzo del Tribunale civile di Roma che ha sposato la tesi dell'incostituzionalità dello strumento del Dpcm rifacendosi expressis verbis all'opinione – veicolata nei media – di diversi presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Baldassarre, Marini, Cassese), giungendo ad analoghi esiti disapplicatori incidenter tantum (in quel caso del Dpcm del 26 aprile 2020, che derivava la sua efficacia dal Dl n. 19/2020 e non dal Dl n. 6/2020 come nel caso vagliato dalla sentenza in commento). Secondo il Tribunale capitolino, l'impianto normativo-provvedimentale adottato per contrastare è in contrasto con la Carta Costituzionale incarnando il Dpcm tutti i possibili vizi dell'atto amministrativo: dalla violazione di legge (articolo 3 della legge n. 241/1990) anzitutto di rango costituzionale (per contrasto con gli articoli da 13 a 22 e 77 della Costituzione), al difetto di istruttoria, dall'incompetenza all'eccesso di potere, passando per l'illogicità, la contraddittorietà, l'incomprensibilità ed il difetto dei presupposti (vedi Tribunale di Roma, ordinanza n. 25283/2020 del 16 dicembre 2020, in quotidiano NT Plus Diritto del 28 dicembre 2020, con commento di Aldo Natalini, Locazioni commerciali chiuse causa Covid-19: Dpcm incostituzionali ma il conduttore moroso non può invocare la riduzione del canone).
Analogamente, sul fronte della giustizia amministrativa, il Tar Lazio (Sezione I, ordinanza n. 7468/2020) nel delibare in fase cautelare la legittimità del Dpcm del 3 novembre 2020, ha sollevato – pur rinviando ogni valutazione alla fase del merito – una questione di portata generale relativa alla ragionevolezza e proporzionalità delle restrizioni prescritte con lo strumento presidenziale (nella specie, l'uso prolungato delle mascherine anche da parte di bambini da 6 a 11 anni) alla luce delle garanzie dei valori costituzionali, tanto individuali che generali (vedi quotidiano NT Plus diritto del 23 dicembre 2020, con commento di Gianluca Fasano, La legittimità soltanto formale non salva il Dpcm di contrasto al Covid-19).

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