Il CommentoSocietà

La responsabilità extracontrattuale dell’imprenditore e gli adeguati assetti di cui all’art. 2086, 2° comma, c.c.

Il criterio di imputazione della responsabilità extracontrattuale per colpa, con riferimento alla figura dell’imprenditore, va rivalutato come primo criterio da considerare per l’ascrizione di responsabilità allo stesso e può essere declinato, anzitutto - alla luce del nuovo dovere di istituire adeguati assetti di cui all’art. 2086 c.c., in combinato disposto con l’art. 2043 c.c. -, come “colpa organizzativa”.

Justice and Law concept. lawyer working at courtroom, selective focus

di Alessandro Palma*

Il perimetro della obbligazione contrattuale dell’imprenditore, con l’introduzione del dovere in capo allo stesso di istituire adeguati assetti (art. 2086, 2° comma, c.c.), si è allargato. Infatti il dovere in oggetto, che è un ulteriore e specifico dovere di protezione innestato nell’ordinamento (sul tema si rinvia a La responsabilità contrattuale dell’imprenditore, dopo l’interpolazione del secondo comma dell’art. 2086 c.c., in questa Rivista del 22 marzo 2024), integra il contenuto del contratto ex art. 1374 c.c. e diventa per lo stesso imprenditore - nei rapporti che instaura concludendo contratti con i terzi, nell’esercizio della propria attività di impresa - un obbligo; obbligo che si concretizza in prestazioni preliminari, strumentali e, in senso lato, organizzative necessarie per eseguire le prestazioni caratteristiche dedotte in obbligazione per l’appunto dall’imprenditore.

Ciò con una serie di predicabili effetti tutti da indagare, ma che sono certamente di non poco momento se si conviene che, con la suddetta nuova disposizione introdotta dal codice della crisi d’impresa, gli adeguati assetti sono stati funzionalizzati, anche e soprattutto, a interessi alieni, esterni all’impresa (si rinvia a Gli “adeguati assetti”, il rischio d’impresa e l’art. 41 della Costituzione, sempre in questa Rivista in data 17 luglio 2023; mi si consenta anche il rinvio a L’imprenditore e i suoi rapporti contrattuali: alcuni effetti del dovere di istituire adeguati assetti, sempre in questa Rivista del 26 marzo 2024, nonché la segnalazione che è in corso di pubblicazione un ulteriore intervento di chi scrive sulla violazione dell’obbligo di istituire adeguati assetti come fondamento autonomo per attivare i rimedi sinallagmatici).

Neppure la responsabilità extracontrattuale dell’imprenditore esce indenne dall’introduzione, nel nostro sistema giuridico, del nuovo dovere di cui si tratta; che chiede, anche in questo àmbito, di essere pienamente riconosciuto (sulle ragioni giuridiche che conducono ad affermare l’avvenuto innesto nel nostro ordinamento di un nuovo dovere, in capo all’imprenditore e in aggiunta al dovere di istituire adeguati assetti che già gravava sugli organi sociali, si rinvia a L’imprenditore e l’art. 2086, secondo comma, c.c.: un nuovo dovere che chiede pieno riconoscimento, in questa Rivista del 13 febbraio 2024).

In linea di principio, il nostro sistema di “responsabilità civile” (con questo sintagma si fa riferimento, nel presente articolo, alla sola responsabilità c.d. aquiliana) non conosce un criterio di imputazione della responsabilità basato sul mero esercizio dell’attività di impresa; questa considerazione trova conferma anche all’esito di un esame dell’istituto a livello di diritto comparato (si veda diffusamente, al riguardo, G. Alpa, Responsabilità civile e profili di diritto comparato, in Enciclopedia del diritto. I tematici. Responsabilità Civile, p. 746 e ss., Milano, 2024).

Per ascrivere la responsabilità all’imprenditore si applicheranno, dunque, di volta in volta: l’art. 2043 c.c. come regola generale, l’art. 2050 c.c. qualora l’attività economica esercitata sia qualificabile come pericolosa, l’art. 2049 c.c. nel caso di danni arrecati dai dipendenti, la normativa del codice del consumo sulla responsabilità per prodotto difettoso al ricorrere dei relativi presupposti soggettivi e oggettivi, e via dicendo. In questo scenario normativo, per così dire, frastagliato, è accaduto - e accade sempre più frequentemente man mano che lo sviluppo tecnologico avanza - che l’esercizio dell’attività di impresa sia occasione, per il Legislatore (d’ora in poi, anche il Regolatore), per configurare nuove e tipiche fattispecie di responsabilità al fine di regolamentare specifiche attività di impresa in determinati settori economici (basti pensare, solo esemplificativamente: alla menzionata disciplina in tema di immissione in commercio di prodotti difettosi di cui al D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224, ora trasfusa negli artt. da 114 a 127 del codice del consumo; alla disciplina in tema di intermediari di prodotti finanziari di cui al TUF, nonché alla recentissima disciplina in tema di intelligenza artificiale, di matrice europea, di cui al Regolamento UE 1689/2024).

Ora, si discute se le (nuove e anche meno recenti) fattispecie di responsabilità civile che si innestano sulla attività di impresa siano disposizioni di responsabilità oggettiva e, comunque, che consentano di accollare al danneggiante una responsabilità senza colpa e ciò analogamente a quanto paiono prevedere alcune norme del codice civile che ammettono come unica prova liberatoria il caso fortuito (e, segnatamente, l’art. 2051 c.c. sulla responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, l’art. 2052 c.c. sulla responsabilità per danni cagionati da animali in custodia e, si può ritenere, l’art. 2054, 3° comma, c.c., sulla responsabilità del “proprietario” del veicolo con la circolazione del quale sono stati cagionati danni) [1].

Non è possibile, in questo intervento, dare compiutamente atto dell’interessante dibattito che si è sviluppato - in Italia, dagli anni Sessanta del secolo scorso - sulla responsabilità oggettiva per rischio (di impresa) e in particolare sulla tesi, elaborata nel nostro ordinamento nazionale da una delle più autorevoli dottrine in materia civilistica, che, distinguendo tra attività biologica e attività economica, vorrebbe il criterio della colpa tendenzialmente sufficiente a regolare le condotte rientranti nel primo tipo di attività; laddove il criterio di addossare il costo del rischio - a prescindere dalla colpa - a chi, come l’imprenditore, lo crea per profittare (sia pure lecitamente) sarebbe il metodo migliore, oltre che per reintegrare il danneggiato, per prevenire i rischi ingiustificati (si veda, per tutti, P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961) [2]. Ci si limita, in questa sede, a rilevare che la tesi della responsabilità oggettiva per rischio di impresa non è stata unanimemente accolta [3] e che, di recente, è stato autorevolmente registrato più di un segno del suo declino a favore del criterio della colpa [4].

È utile qui soffermarsi, ai fini dell’indagine che si propone questo scritto, sulle ragioni di fondo che - a partire dalla Lex Aquilia (che, per “punire” il soggetto che aveva cagionato il danno, postulava la individuazione di un criterio soggettivo come il dolo o la colpa) - hanno condotto a teorizzare la responsabilità oggettiva per rischio (lecito) di impresa.

Man mano che lo sviluppo tecnologico faceva evolvere la società, alla responsabilità civile venivano assegnate nuove e diverse funzioni (oltre a quelle originarie compensativa e preventiva), fino all’affermazione, da ultimo, di un nuovo paradigma che ammette anche la funzione punitiva [5]; e ciò mentre ci si avvedeva, con sempre maggiore consapevolezza, che il sistema fondato sulla colpa non dava risposte appaganti al problema dei danni causati incolpevolmente (che, quindi, non potevano essere risarciti) e alle nuove esigenze di distribuzione efficiente e/o solidale dei rischi e dei costi del risarcimento. Solo che vietare le attività che producono danni incolpevoli non era considerata una soluzione praticabile, dal momento che si trattava di attività utili per il “progresso” della società e che, quindi, non potevano essere inibite. Così riteneva e ritiene tuttora il Regolatore: prova ne è la norma di cui all’art. 2050 c.c. (“Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”) - presente nel nostro sistema sin dai tempi dell’entrata in vigore del codice civile del 1942 - da cui, al netto delle innumerevoli questioni che pone, pare potersi ricavare un principio chiaro collegato all’esercizio dell’attività di impresa e cioè, che le attività non espressamente vietate dal Regolatore sono consentite anche se pericolose “per (loro) natura o per la natura dei mezzi adoperati”. 

Sulla costante tensione tra la necessità di garantire lo sviluppo tecnologico e l’esigenza di tutelare gli interessi dei terzi che possano essere lesi dall’attività di impresa, si è innestata una svolta di pensiero: la produzione di un danno tra due individui che vengono in contatto accidentalmente non può essere più un fatto privato, che riguarda solo le loro individualità, ma è anche un fatto che impatta sulla collettività, coinvolgente interessi della società, del bene comune. Quindi, a prescindere dalla configurazione del presupposto soggettivo (minimo) della colpa per poter ascrivere al danneggiante la responsabilità per il danno causato, è diventato rilevante stabilire se sia giusto che questo danno rimanga nella sfera giuridica di chi lo ha subìto o se sia preferibile allocarlo altrove (per una completa panoramica delle soluzioni al problema, si veda F. Di Ciommo, Responsabilità civile e rischio di impresa, in Enciclopedia del diritto. I tematici. Responsabilità Civile, cit., p. 1026 e ss.). E così: la responsabilità civile, soprattutto in materia di impresa, è diventata il settore di elezione dell’analisi economica del diritto, orientata, al netto delle differenze tra le varie correnti, a individuare i criteri di efficiente allocazione del danno e preoccupata, tendenzialmente, a non intralciare le dinamiche del mercato; si è scoperto, dando all’istituto grande spazio, il ruolo dell’assicurazione, che non solo trasferisce i costi, ma riuscirebbe, si ritiene, anche a distribuirli in maniera efficiente (fino a ripartirli tra tutti gli appartenenti a una determinata categoria e, qualora vengano istituiti sistemi di assicurazione sociale, su tutti i consociati); si è ragionato sempre più in termini di collettivizzazione” dei rischi e, al contempo, di socializzazionedei danni, focalizzandosi così, da un lato, sull’allocazione quanto più possibile efficiente e razionale dei costi e, dall’altro lato, sulla distribuzione, asseritamente solidale, delle perdite”. Infine, si sono spalancate le porte, almeno nei discorsi giuridici, all’idea del “rischio” come diverso fondamento della responsabilità e, quindi, all’applicazione dei criteri, in senso lato, di responsabilità oggettiva: in particolare, si è pensato e predicato, a quel punto, che fosse “giusto” che l’imprenditore rispondesse, tendenzialmente senza limite, per l’intero rischio generato dalla sua attività di impresa, visto che ne ritraeva profitto, anch’esso possibilmente senza limite.

Ora, a chi scrive pare evidente che la tesi della responsabilità oggettiva per rischio (lecito) di impresa, con tutti i suoi indubbi vantaggi che non si vogliono disconoscere, sottende l’idea di matrice capitalistica - forse non più perseguibile e nemmeno prospettabile - del profitto e della crescita a oltranza, illimitata, in forza della quale il Regolatore non vieta in linea di principio l’attività di impresa (neppure quella pericolosa, come si è già rilevato), ma, tutt’al più, la regolamenta imponendo misure e cautele più o meno severe e specifiche, a seconda della rilevanza per l’interesse comune del settore e del tipo di attività che vengono in considerazione.

In una prospettiva complementare di questa logica e stando ai fautori della tesi di cui stiamo scrivendo, il criterio oggettivo (per rischio lecito prodotto) di imputazione della responsabilità all’imprenditore dovrebbe indurlo a internalizzare i costi di prevenzione del danno o, al limite a cessare l’attività per insostenibilità dei costi necessari a gestire l’area di rischio generata, con la conseguenza che la funzione compensativa e, soprattutto, preventiva della responsabilità civile sarebbero salvaguardate e il sistema rimarrebbe comunque in equilibrio (è questa, in estrema sintesi, la sostanza del discorso sulla efficienza delle regole di imposizione del costo del rischio all’imprenditore che fa Trimarchi in La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, cit., p. 278: “[m]olto meglio ricorrere a un sistema di applicazione agile e semplice, e di effetto automatico e sicuro: l’attribuzione all’imprenditore del rischio d’impresa, che costituisce una pressione economica perché sia razionalizzata (dal punto di vista sociale) la produzione, il che potrà avvenire, secondo i casi, con il tentativo di aumentare la produttività, con l’adottare norme supplementari di sicurezza, con il sostituire il metodo di produzione e, nei casi estremi, con l’abolire un settore marginale d’impresa o con il chiudere l’impresa stessa. È importante sottolineare che questo discorso non vale solo per le imprese particolarmente pericolose: qualsiasi impresa, implicando organizzazione e continuità, se causa danni, grandi o piccoli, frequenti o infrequenti, li causa con una certa regolarità, calcolabile con lunghi periodi, così che il rischio relativo può essere tradotto in costo”).

Sennonché, non è assolutamente scontato che, anche in un sistema votato al profitto illimitato come il nostro, chiamare a rispondere l’imprenditore sulla base di un criterio oggettivo di imputazione - senza possibilità di liberarsi se non con la prova del caso fortuito - prevenga al meglio i danni generati dalla sua attività caratteristica, né che garantisca la migliore copertura del danno. E infatti, pur rimanendo sul piano dell’analisi costi/benefici praticata dai cultori della responsabilità oggettiva, vi è anzitutto che il singolo imprenditore, in un siffatto contesto, non avrebbe incentivo - oltre un certo limite - a prevenire i danni che la sua attività potrebbe generare, tanto risponderebbe comunque (in qualunque modo si adoperi) [6]. Non è detto neppure che l’imprenditore si determini a cessare l’attività, qualora si renda conto della relativa antieconomicità collegata a tutti i costi necessari per la gestione del rischio generato: con tutta probabilità, l’idea di continuare a profittare lo indurrà piuttosto a continuare l’attività caratteristica dell’impresa, da un lato, con la “speranza” che i danni effettivamente non si producano e, dall’altro lato, con la certezza che al massimo sarà l’evento infausto a determinare la cessazione dell’attività e ciò perché, in denegata ipotesi, non riuscirà a risarcire effettivamente e per intero (ma, per intanto, avrà continuato a fare profitto).

In questo scenario, nel quale è tutt’altro che semplice decidere in concreto quando convenga utilizzare la colpa come criterio di imputazione della responsabilità e quando, invece, sia opportuno procedere attraverso un approccio di tipo, più o meno, oggettivo, è forse più funzionale all’applicazione pratica del diritto prendere atto che nel nostro sistema l’imputazione del danno dipende dalle scelte di politica del diritto che, di volta in volta, fa il Regolatore: nell’ordinamento italiano è il Legislatore a determinare, casisticamente e come già scritto, regole e criteri di imputazione di responsabilità collegati alle varie tipologie di attività di impresa.

In particolare, il Legislatore: può senz’altro superare il concetto di colpa quale principale criterio d’imputazione del fatto illecito tutte le volte che vuole, stabilendo un nuovo e apposito criterio di collegamento tra fatto, danno e soggetto responsabile, ma lo deve fare espressamente (sulla base di valutazioni di politica del diritto che potranno attingere a considerazioni di utilità sociale dell’attività di impresa, piuttosto che di efficienza economica o di solidarietà e via dicendo) e nella maniera più chiara e trasparente possibile. Esattamente come è accaduto, sotto la spinta del Legislatore unionale, per la responsabilità del produttore per i danni cagionati dai difetti del suo prodotto [7].

Ancora, il Regolatore: tenendo sempre presente che l’evento dannoso non può mai - applicando qualsivoglia criterio di imputazione della responsabilità - essere posto nel nulla con il ripristino della situazione anteriore, con la conseguenza che il valore distrutto non è recuperabile nella sua configurazione naturale (ci sarà sempre un soggetto depauperato, sia che si lasci il danno là dove si è verificato, sia che lo si trasli) [8], dovrebbe risolvere preliminarmente il conflitto fra l’esigenza di consentire comunque un’attività utile alla collettività e la sua regolazione nell’ottica del contenimento dei rischi che detta attività genera.

Questo dovrebbe fare fissando il livello di rischio accettabile in attuazione del principio di precauzione - di cui dovrebbe essere il principale interprete (cfr. L. Mormile, Il principio di precauzione fra gestione del rischio e tutela degli interessi privati, in Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, Vol. X, 2012, in particolare p. 250 e ss.) - e assumendosi la responsabilità, al limite, di disporne (ovviamente nei casi più eclatanti) anche il divieto [9]: ciò, se non per abiurare la logica del profitto a tutti i costi, almeno per dare finalmente attuazione a quel progetto rivoluzionario che è stato e che è tuttora la nostra Costituzione (segnatamente, nella parte in cui, all’art. 41, 1° e 2° comma, Cost. dispone che, pur essendo libera, la “iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”).

Nello scenario auspicabile sopra sinteticamente descritto, sempre il Legislatore: mentre continua a non dettare un unico e autonomo criterio di imputazione della responsabilità di impresa, ha approfittato della recente emanazione del codice della crisi d’impresa per ridare spazio, nell’àmbito della stessa attività di impresa, al criterio di imputazione della colpa stabilendo a carico dell’imprenditore un primario e generale dovere cui ottemperare nella conduzione della sua attività di impresa. Si tratta per l’appunto del dovere di istituire adeguati assetti di cui all’art. 2086, 2° comma, c.c. che è, come si anticipava, un dovere di professionalità e al contempo un dovere di protezione di terzi in qualche modo coinvolti dall’attività di impresa, sino a identificarsi, questi terzi, nell’intera collettività [10].

Non sarà peregrino per l’interprete, pertanto e d’ora in poi: ancorare il giudizio di responsabilità dell’imprenditore su fatti pregiudizievoli accaduti nel corso della sua attività caratteristica, anche e soprattutto, alla violazione del primario dovere di istituire adeguati assetti ex art. 2086, 2° comma, c.c. che è un dovere preciso anche se prescritto nella forma di una clausola generale e, quindi, con delega allo stesso interprete dell’elaborazione della regola del caso concreto. Ciò, ovviamente, facendo salvi sia i differenti casi in cui il Legislatore abbia disposto che l’ascrizione di responsabilità all’imprenditore avvenga sulla base di criteri di imputazione diversi dalla colpa, sia l’adempimento di più specifici doveri positivi o astensivi posti dallo stesso Legislatore con riferimento all’attività di impresa svolta in determinati settori.

Infatti, l’interprete: a sua volta e a rigore, di fronte alle precise scelte normative, dovrebbe indagare la relativa ratio, per poi, attraverso i meccanismi della interpretazione estensiva e dell’analogia (legis piuttosto che iuris), verificare e applicare quelle scelte normative ai casi concreti che si presentano al suo esame; ma non dovrebbe essere autorizzato - quanto alla responsabilità civile che ci occupa - a scegliere, ad esempio, tra colpa e responsabilità oggettiva sulla base degli effetti che gli possano apparire desiderabili, sia pure sulla base di, più o meno, razionali o nobili idee da cui scaturiscono istanze legittime come quelle dell’“efficienza economica” e della “solidarietà”. Idee e istanze da cui, per contro e come si è scritto, è il Legislatore che dovrà attingere per orientare le sue scelte giuridiche sui criteri di imputazione del danno.

Si vuol dire che il criterio di imputazione della responsabilità civile dell’imprenditore per colpa, piuttosto che essere considerato semplicisticamente anacronistico, va forse più correttamente rivalutato come primo criterio da considerare per l’ascrizione di responsabilità e, anzitutto, va declinato come “colpa organizzativa” (si veda, in tal senso, A. Albanese, Le categorie del diritto privato alla prova delle nuove tecnologie. Contratto e “torto” nell’economia digitale, in Dike Giuridica, 2024, 3, p. 9 e ss., il quale, avendo riguardo all’economia digitale, osserva efficacemente che “[i]n questo scenario anche il concetto di colpa rilevante ai fini della responsabilità civile si evolve e tende sempre più a configurarsi come mancata adozione di misure idonee a governare i rischi, identificandoli, valutandoli e mitigandoli”). Con la conseguenza che, quando si tratterà di ascrivere la responsabilità civile all’imprenditore per l’attività caratteristica esercitata, l’elemento soggettivo (minimo) che deve configurarsi quale presupposto dell’invocata responsabilità è per l’appunto la colpa organizzativa.

E non dovrebbero esserci molte difficoltà, dal punto di vista processuale, ad onerare, non il danneggiato della esistenza dell’elemento soggettivo, ma l’imprenditore incolpato dell’inesistenza di una siffatta colpa: ciò in forza del criterio della vicinanza della prova elaborato dalla giurisprudenza anche di legittimità e dalla migliore dottrina processualistica (per la giurisprudenza si veda, come caso emblematico di applicazione del principio in materia di responsabilità extracontrattuale, Cass. 7 ottobre 2014, n. 21083; per i riferimenti della dottrina, si veda C. Besso, La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc. civ., 2015, p. 1383 e ss.). Peraltro, oggigiorno, in un contesto socio-economico globalizzato e perennemente in crisi, nel quale i danni che può provocare l’attività economica sono lungolatenti e difficilmente risarcibili, è proprio questo che, in linea di principio, si può e si deve chiedere all’imprenditore [11]: di essere in grado, in ogni momento della vita dell’impresa, di dare prova dell’adeguatezza di un assetto finalizzato alla gestione preventiva dei rischi conosciuti e prevedibili sulla base dello sviluppo della tecnica; rischi sussumibili tutti, almeno descrittivamente, nel generale rischio che l’impresa generi esternalità negative che non assorbe e scarica all’esterno, sulla collettività [12].

In questa prospettiva, le presunzioni di colpa organizzativa che potrà adoperare il Giudice (ex art. 2729 c.c.) potranno concretizzarsi al limite anche, di fatto, in una inversione dell’onere della prova, a carico dell’imprenditore, con riferimento all’adeguatezza degli assetti, ma mai dovrebbero spingersi, se così non prescrive la legge, fino a malcelate condanne per responsabilità oggettiva.

Nella stessa prospettiva, la prova liberatoria dalla colpa organizzativa non dovrebbe arrivare a dare dimostrazione dell’accadimento del caso fortuito o del fatto del terzo, a meno che, si ripete, non lo richieda la legge ovvero questo sforzo probatorio non sia finalizzato, piuttosto, a interrompere il nesso causale. Per contro, l’imprenditore dovrebbe andare esente da responsabilità qualora dia la prova, tutt’altro che agevole (beninteso), oltre che dell’ottemperanza alla miriade di regole che riguardano la sua attività con riferimento allo specifico rischio cui si collega il danno occorso, dell’adeguatezza ex ante degli assetti istituiti sempre in relazione agli specifici rischi implicati dalla sua attività e riferibili al danno prodottosi [13].

Ancora, lo stesso interprete: qualora l’attività di impresa sia qualificabile come attività pericolosa, non dovrebbe più ritenere le “misure idonee a evitare il danno” di cui all’art. 2050 c.c., che l’imprenditore deve provare di avere adottato per non incorrere in responsabilità, come qualcosa di indefinito e ricavabile soltanto ex post, magari anni dopo [14] e, come già scritto, persino coincidente con la prova del caso fortuito [15]. Per contro, “tutte le misure idonee ad evitare il danno” la cui prova è richiesta dall’art. 2050 c.c. per andare esente dalla responsabilità per attività pericolosa, dovranno essere pur sempre individuate e valutate all’interno del perimetro di un adeguato assetto. Assetto che: a) l’imprenditore deve preoccuparsi di istituire e costantemente aggiornare sulla base del rischio tipico e delle specifiche di quella determinata attività pericolosa; b) deve sempre risultare approvvigionato alle modalità di esercizio della stessa attività disciplinate e, auspicabilmente, aggiornate dal Regolatore; c) al limite, se si tratta di danni che neppure per la scienza erano prevedibili (come nel caso del c.d. “ignoto tecnologico”), deve avere in dotazione anche un adeguato investimento nella ricerca e sviluppo [16].

In conclusione, come ci ammoniva oramai quasi vent’anni fa un grande Maestro del diritto commerciale che con le sue osservazioni precorreva i tempi, “se è vero che in molti casi più aderente sembra l’inquadramento della responsabilità d’impresa nella categoria della responsabilità oggettiva, nel senso che l’imprenditore non risponde per aver tenuto un comportamento doloso e colposo ma perché si è accollato il rischio dell’atto o dell’attività, è anche vero che non sono da escludersi ipotesi in cui la colpa o il dolo recitino, invece, un loro ruolo, come accade, ad esempio, per molti dei comportamenti astensivi. Detto in altri termini … fondamento della responsabilità non è il rischio cagionato con l’attività dannosa perché il danno deve gravare su colui che sia in grado di sopportarlo nel modo più economico possibile, ma è prima di tutto il risultato che si deve raggiungere imponendo alla gestione dell’impresa un certo indirizzo e sanzionando il mancato adeguamento al complesso della normazione predisposta per coinvolgere l’impresa stessa nei fini di utilità sociale (V. Buonocore, La responsabilità dell’impresa fra libertà e vincoli, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2006, p. 21 e ss., il quale fa espresso riferimento all’attuazione dei precetti costituzionali e, segnatamente, agli artt. 2 e 41 Cost.). In definitiva, gli adeguati assetti - all’esito dell’indagine che chi scrive può ritenere perimetrata con il presente intervento e con i precedenti pubblicati in questa Rivista - dovrebbero costituire, una volta metabolizzati nel relativo significato più pregnante, fondamento e limite della libertà dell’imprenditore: fondamento, in quanto “vera e propria condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività economica” [17], al punto da non dover destare scandalo un controllo diffuso e reciproco sull’effettiva istituzione degli adeguati assetti nella fase fisiologica dell’impresa (in tal senso si inserisce l’indagine sulla violazione dell’obbligo di istituire adeguati assetti come fondamento autonomo per attivare i rimedi contrattuali); limite, in quanto il rischio che si dovrebbe chiedere all’imprenditore di mappare e gestire preventivamente e la conseguente responsabilità che ne può eventualmente derivare, dovrebbero rientrare, almeno in linea di principio, nella cornice degli adeguati assetti e, tendenzialmente, non porsi al di fuori.

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*Alessandro Palma, Founder di Studio Legale Palma, Socio Centro Studi Borgogna

[1] In tal senso, cfr. A. Liserre, F. Rocchio, Lezioni di diritto privato, Milano, 2017, p. 466 e ss., i quali affiancano ai casi di responsabilità oggettiva, come disciplina codicistica alternativa a quella principale fondata sulla colpa, i casi di responsabilità aggravata e quelli da posizione di garanzia.

[2] Si veda, dello stesso Autore, la più recente opera La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, in particolare p. 255 e ss..

[3] Ad esempio, è stato fatto notare che il criterio di imputazione della responsabilità per rischio si applica, per legge, anche ad attività non necessariamente imprenditoriali o semplicemente economiche (basti pensare alle fattispecie di responsabilità per rovina di edificio di cui all’art. 2053 c.c. o per circolazione di veicoli di cui all’art. 2054 c.c.) e questa considerazione impedirebbe di identificare in questo criterio un autonomo criterio di imputazione della responsabilità per attività di impresa (L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F. D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile. 3. Obbligazioni e contratti, Torino, 1989). È stato pure suggerito, sulla scia di una nota dottrina nordamericana (G. Calabresi, Costo degli incidenti e responsabilità civile, Analisi economico-giuridica, Milano, 1975), che la responsabilità debba essere addossata non tanto al soggetto che ha creato la situazione di rischio, ma a quello che si trova nella miglior condizione per controllarlo (G. Alpa, F. Pulitini, S. Rodotà, F. Romani, Interpretazione giuridica e analisi economica, Milano, 1982). E ancora: in nome della incentivazione delle attività economiche, si è da ultimo suggestivamente proposto, per decidere quali criteri di imputazione della responsabilità debbano essere applicati di volta in volta, di analizzare dapprima la capacità di prevenzione dei soggetti coinvolti come danneggiato e responsabile del danno e, così, “(s)e viene riconosciuta un’ipotesi di prevenzione bilaterale, l’unica soluzione efficiente da applicare, in termini di prevenzione, sarà la colpa. Invece, se viene riconosciuta un’ipotesi di prevenzione unilaterale, lo stato della tecnologia deve essere verificato in anticipo per trovare una soluzione efficace in termini di prevenzione: se lo stato tecnologico dell’attività in analisi non si è ancora sviluppato sufficientemente, la soluzione ottimale in prevenzione si troverà applicando la colpa … anziché la responsabilità oggettiva. Se, al contrario, lo stato tecnologico dell’attività oggetto di analisi ha già raggiunto un livello accettabile, deve essere applicato il criterio del rischio” (G. Fernández, I criteri di imputazione della responsabilità nel diritto peruviano. Per una reinterpretazione funzionale e concettuale sulle orme di Castronovo e Calabresi, in La scienza del diritto civile e la sua dimensione internazionale, a cura di A. Albanese e A. Nicolussi, Torino, 2021, p. 85 e ss.).

[4] In tal senso, si veda V. Roppo, Pensieri sparsi sulla responsabilità civile (in margine al libro di Pietro Trimarchi), in Questione Giustizia, 1/2018, p. 108 e ss..

[5] Si veda G. Spoto, Il paradigma della funzione punitiva della responsabilità civile, in Danno e responsabilità, 2024, 1, p. 9 e ss..

[6] In tal senso, si veda Alpa, Responsabilità civile e profili di diritto comparato, cit., p. 780, il quale osserva, realisticamente, che “(l)’obbligo di risarcire il danno, che dovrebbe indurre l’agente ad adottare tutte le misure idonee a prevenire pregiudizi ai terzi e distoglierlo dall’intraprendere attività pericolose o eccessivamente rischiose può divenire un forte strumento di deterrence solo se subordinato all’accertamento di una “colpa” dell’agente. Ma quante volte l’obbligo sorge indipendentemente da una colpa, e indipendentemente da ogni valutazione della diligenza del comportamento e della adozione delle misure necessarie per prevenire l’effetto dannoso, è chiaro che l’agente risente in misura minore dell’effetto deterrente della responsabilità”.

[7] “Il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto” (art. 114 codice del consumo) e, a tal fine, “(i)l danneggiato deve provare il difetto, il danno, e la connessione causale tra difetto e danno” (art. 120 codice del consumo), ma non la mancanza di diligenza nella fabbricazione del bene (tant’è che l’esimente è collegata normativamente alla prova non di aver agito con diligenza, ma di una delle circostanze di cui all’art. 118 codice del consumo); nell’occasione, le valutazioni di politica legislativa sono state espressamente manifestate dal Legislatore comunitario il quale, nei considerando della Direttiva del Consiglio Europeo 25 luglio 1985, n. 85/374/CEE, in attuazione della quale è stato emanato il D.P.R. 24 maggio 1998, n. 224, poi trasfuso nel codice del consumo, si è così espresso: “solo la responsabilità del produttore, indipendente dalla sua colpa, costituisce un’adeguata soluzione del problema, specifico di un’epoca caratterizzata dal progresso tecnologico, di una giusta attribuzione dei rischi inerenti alla produzione tecnica moderna … una giusta ripartizione dei rischi tra il danneggiato e il produttore implica che quest’ultimo possa esimersi dalla responsabilità se prova l’esistenza di alcuni fatti che lo liberano”. A rigore, poi, il produttore non andrà esente una volta per sempre da responsabilità se, nel caso in cui non riesca a provare le circostanze elencate nell’art. 118 codice del consumo, non sia applicabile il regime di responsabilità oggettiva sinteticamente sopra descritto: il danneggiato potrebbe, in ipotesi, far valere la responsabilità, di carattere generale, per colpa configurata oggi dall’art. 2043 c.c. (anzitutto) in combinato disposto con l’art. 2086, 2° comma, c.c..

[8] Si veda proprio Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., p. 16, il quale precisa che “una volta che il danno si è verificato, non vi è niente che possa fare che esso sia come non avvenuto. Il danno non si cancella più dalla società: col risarcimento non lo si annulla, ma semplicemente lo si trasferisce da chi lo ha subito immediatamente a chi lo risarcisce”.

[9] Sul principio di precauzione si veda anche L. Rossano, Il principio di precauzione nel diritto dell’impresa, in www.studionotarilerossano.it.

[10] L’importanza nel nostro sistema dell’innesto di questo nuovo dovere, anche se al momento non ha avuto significativi riverberi sullo studio dei possibili effetti della relativa violazione, ha condotto autorevole dottrina persino ad affermare che l’art. 2086 c.c. (insieme all’art. 3 del CCII, aggiunge chi scrive), “sancisce una vera e propria condizione di legittimazione all’esercizio dell’attività economica” (P. Benazzo, Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i diritti “corporativi”: che ne resta dei soci?, in Diritto della crisi, 4 dicembre 2023).

[11] Per provare a uscire dalla “irresponsabilità organizzata” di cui scriveva U. Beck in La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, ristampa 2021, facendo riferimento alla gara ingaggiata dagli operatori del mercato al fine di sottrarsi alle eventuali responsabilità per la produzione, per l’appunto, di danni generati nell’esercizio dell’attività economica.

[12] In tal senso si veda D. Galletti, L’organizzazione dell’impresa e il quomodo della produzione. L’impresa non è più black box?, in Rivista di diritto dell’impresa, 2023, in particolare p. 127.

[13] Tutto ciò non è di poco conto, se si considera che questa pletora di regole ha indotto la dottrina a scrivere di “(in)sostenibilità della responsabilità civile” (si veda G. Ponzanelli, Sostenibilità della responsabilità civile, in Contratto e impresa, 2023, p. 716 e ss.): questo è tanto più vero per l’imprenditore e ciò non solo per una questione di costi, ma come fenomeno generale determinato anche dagli infiniti “compiti” che lo stesso imprenditore è chiamato ad assolvere (da questo punto di vista si richiama M. Bianca, L’esercizio “in proprio” dell’impresa a responsabilità limitata. Spunti di riflessione dal diritto francese, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2024, 5, p. 923 e ss., il quale avverte “che per le imprese potrebbero affacciarsi responsabilità e fattispecie di danno del tutto peculiari, quali, ad esempio, quelli generabili nell’ambito dei cc. dd. contenziosi ambientali, climatici e, soprattutto, sociali”. Inoltre, prosegue l’Autore, “(è) chiaro il riferimento alle nuove frontiere del diritto dell’impresa segnato dagli acronimi CSR (Corporate Social Responsibility) e ESG (Environment Social Governance), nonché alle indicazioni ricavabili dalla nota proposta di direttiva sulla Due Diligence degli amministratori, ormai in dirittura d’arrivo”. Continua ulteriormente l’Autore, scrivendo che “tutti gli imprenditori, ma soprattutto quelli esercenti attività più pericolose, potrebbero incappare nei così detti danni catastrofali, forieri di obbligazioni risarcitorie così ingenti da porre persino il problema di riassicurazione. Non a caso, per il loro ristoro si ragiona della costituzione di altri fondi e garanzie collettive di matrice pubblicistica”).

[14] Si legga, a esempio, Corte d’Appello di Milano, 19 luglio 2021, n. 2257, che, nel confermare sul punto la sentenza di primo grado, ha ritenuto che le misure idonee a evitare i danni provocati da un incendio durante l’installazione di un impianto fotovoltaico fossero quelle individuate, col senno del poi, da un CTU chiamato ad esprimersi dieci anni dopo il fatto.

[15] Al riguardo, la giurisprudenza consolidata di legittimità, confermata da ultimo da Cass., 5 maggio 2023, n. 11975 e da Cass., 19 maggio 2022, n. 16170, ritiene che “la presunzione di responsabilità contemplata (dall’art. 2050 c.c.) può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, e cioè con la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno: pertanto non basta la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di avere impiegato ogni cura o misura volta ad impedire l’evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l’evento”, con la conseguenza pratica che la prova liberatoria, dunque, coincide con il caso fortuito.

[16] Interessante, da questo angolo visuale, il riferimento al dovere dell’imprenditore, rientrante peraltro nell’ordinaria diligenza, di “tenersi costantemente aggiornato sulle misure protettive più adeguate” (così, testualmente, Trib. Potenza, 16 dicembre 2021, n. 1440, in DeJure, che richiama testualmente Cass., 3 settembre 2015, n. 17547).

[17] Benazzo, Gli strumenti di regolazione della crisi delle società e i diritti “corporativi”: che ne resta dei soci?, cit., il quale osserva efficacemente che l’esercizio dell’attività di impresa è “un’attività cui l’ordinamento non conced(e) un diritto di cittadinanza assoluto, ma che diviene un privilegio condizionato, il cui esercizio dunque è legittimo nella misura in cui l’iniziativa economica venga organizzata e gestita in condizioni di continuo equilibrio, non solo di natura finanziaria, ma anche rispetto a quei valori, quelle istanze, quei principi costituzionali consacrati negli articolo 9 e 41 della Carta costituzionale”.