Il mancato rispetto dei termini per il deposito della memoria di replica non annulla la sentenza
La decisione 7086/2015 della Suprema corte è interessante in relazione al fatto che i giudici hanno inteso seguire un orientamento minoritario in ordine agli effetti che si producono sulla sentenza quando il magistrato , dopo aver concesso i termini di cui all’articolo 190 del Cpc per il deposito delle comparse conclusionali e per le memorie di replica, decida, di sua iniziativa, di non tenerne più conto emettendo la sentenza ancor prima che essi siano scaduti.
Il mancato rispetto del termine per la replica - Nel caso specifico era accaduto che la sentenza veniva emessa dal giudice del gravame senza tener conto del termine per la replica e veniva impugnata per cassazione dalla parte soccombente la quale eccepiva la nullità della pronuncia in quanto emessa in violazione degli articoli 101, 190 e 352 del Cpc; tale contestazione, però, non è stata accolta dal giudice di legittimità.
Ha ritenuto la Corte che, seppure consapevole dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale maggioritario che in tal caso ha stabilito sussistere un motivo di nullità della sentenza, tali decisioni non risultavano essere convincenti.
Le motivazioni della Suprema corte - Il giudice di legittimità ha richiamato il precedente di cui alla sentenza 4020/2006 per affermare che l’assunzione della causa in decisione prima della scadenza dei termini di cui all’articolo 190 del codice di procedura civile non costituisce motivo di nullità della sentenza, essendo indispensabile, ai fini della violazione del contraddittorio, che l’irrituale conduzione del processo abbia comportato una lesione del diritto di difesa. In sostanza, a carico della parte c’è l’onere di dimostrare che il mancato deposito delle comparse conclusionali o delle memorie di replica abbia impedito alla difesa di svolgere ulteriori precisazioni della domanda o delle eccezioni, rispetto a quanto già fatto in precedenza.
La Corte ha, poi, ricordato che le sezioni Unite con la sentenza 3758/2009 avevano affermato che la lesione di una norma processuale non è invocabile in sé per sé ma è necessario che la parte, che ne deduca la violazione, dimostri la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente a tale violazione.
Con la successiva sentenza 4340/2010, la Corte ha stabilito che i principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire non tutelano l’astratta regolarità del processo, bensì soltanto l’eliminazione del pregiudizio al diritto di difesa subito dalla parte che ne denuncia il vizio.
Pertanto, ha concluso la Corte, non basta, ai fini della declaratoria di nullità della sentenza, indicare il mancato rispetto dei termini ma occorre provare che per effetto delle argomentazioni difensive, contenute nello scritto depositato successivamente alla data della decisione, il giudice, probabilmente avrebbe preso una decisione diversa da quella effettivamente assunta.
Le osservazioni critiche - Poiché le argomentazioni esposte dai Supremi giudici al riguardo non ci paiono convincenti, vogliamo ora richiamare quanto, invece, sostenuto dall’indirizzo giurisprudenziale maggioritario.
Innanzi tutto, come esposto nella sentenza della Corte n. 14657 del 2008 e reiterato in quella successiva n. 7072 del 2010 e nell’ordinanza n. 7760 del 2011, il mancato rispetto da parte del giudice dei termini da lui concessi non può che costituire violazione del principio del contraddittorio, impedendo al difensore di svolgere nella sua pienezza il diritto di difesa e, pertanto, non può non avere come conseguenza che quella della nullità della decisione. La tutela del principio del contraddittorio, infatti, è riferibile non solo alla fase introduttiva del giudizio ma deve realizzarsi durante tutto lo svolgimento del processo e, quindi, anche con riferimento a ogni atto o provvedimento ordinatorio per il quale si ponga l’esigenza di assicurare la presenza in causa di tutte le parti del giudizio.
Questo orientamento giurisprudenziale ha ritenuto, pertanto, che viola il principio del contraddittorio l’aver impedito al procuratore di una parte di svolgere nella sua completezza il proprio diritto di difesa e, conseguentemente, la sentenza emessa è affetta da nullità senza che la parte sia onerata di indicare se e quali argomenti, non svolti nei precedenti scritti difensivi, avrebbe potuto esporre ove le fosse stato consentito il deposito degli scritti conclusivi.
È stato, quindi, ribadito che l’articolo 190 del codice di procedura civile descrive un modo di svolgimento della fase di decisione della causa, la cui mancata osservanza conduce alla nullità del procedimento e della sentenza, dal momento che le illustrazioni delle conclusioni che i difensori fanno nelle conclusionali e le osservazioni effettuate nelle repliche rappresentano un complemento dell’esercizio del diritto di difesa nel contraddittorio tra le parti.
La perentorietà dei termini - Inoltre, la stessa formulazione dell’articolo del codice indica che i termini in questione sono perentori, cioè tali che, secondo il disposto dell’articolo 153 del Cpc, non possono essere né abbreviati né prorogati nemmeno sull’accordo delle parti. La perentorietà dei termini, se riguarda ovviamente le parti che debbono osservarli, non può non riguardare anche chi della decisione della causa è investito.
Inoltre, il comma 2 dell’articolo 190 concede al giudice di fissare un termine più breve per il deposito delle comparse conclusionali ma non certo quello di non osservarlo più dopo averlo concesso.
Poiché il processo civile è a impulso delle parti, sono queste ultime che fanno richiesta della concessione dei termini per le conclusionali, potendo anche d’accordo rinunciarvi qualora il caso lo richieda.
La dimenticanza del giudice - Singolare è il ritenere, invece, che il giudice dopo aver concesso i termini perentori se ne possa dimenticare, possa non rilevare tale fatto al momento della decisione, così da costringere la parte che si ritiene danneggiata a svolgere un’impugnazione in cui dovrà dimostrare, circostanza tutt’altro che facile, che per effetto delle argomentazioni svolte negli scritti, depositati dopo la data della decisione, il giudice, probabilmente, avrebbe preso una decisione diversa da quella effettivamente assunta. Ciò sicuramente in spregio del principio della ragionevole durata del processo e di quello del giusto processo.
Il criterio formalistico - Da ultimo, per concludere il ragionamento, ci sembra utile far ricorso anche a un criterio formalistico, giacché il codice di procedura civile prevede espressamente tale criterio anche per i provvedimenti del giudice.
Il provvedimento con il quale il giudice, sia esso monocratico che collegiale, concede i termini perentori è un’ordinanza che può essere revocata su istanza delle parti o da parte del giudice con la sentenza che definisce il giudizio e, in quest’ultimo caso, deve essere motivata. Qualora ciò non accada, come nel caso in cui il giudice, per evidente errore, abbia privato le parti di depositare gli scritti difensivi conclusivi e non lo abbia giustificato, la sentenza emessa non può essere che nulla, giacché altrimenti si finirebbe per ammettere che qualsiasi provvedimento reso nel corso del giudizio dal giudice possa essere, a suo discernimento, revocato, modificato o annullato e ciò con buona pace del principio della certezza del diritto.
Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 9 aprile 2015 n. 7086