Penale

Il medico del pronto soccorso non è tenuto a ricoverare il paziente ma deve visitarlo

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di Giuseppe Amato


Il medico di turno in pronto soccorso non è sempre tenuto a ricoverare il paziente, ma, quando ricorrono condizioni di urgenza e vi sia il rischio di conseguenze dannose per la salute del paziente, deve comunque visitarlo: solo così può assumere le determinazioni conseguenti e evitare di dover rispondere del reato di cui all'articolo 328, comma 1, del Cp. Questa regola di diritto è desumibile dalla sentenza della Cassazione n. 45844 del 2014, che coniuga in maniera soddisfacente l'ambito della discrezionale valutazione tecnica riservata all'insindacabile giudizio del sanitario (avente a oggetto la specificità dell'approccio terapeutico) con gli obblighi di positivo intervento comunque imposti al sanitario di turno (necessità di visitare il paziente le cui condizioni gli vengano presentate come a rischio), la cui inosservanza può appunto integrare il rifiuto di atti d'ufficio.

La vicenda processuale - Il reato di rifiuto di atti d'ufficio (articolo 328, comma 1, del Cp) era stato ritenuto a carico di un medico di turno presso il reparto di pronto soccorso di un ospedale, il quale, chiamato a occuparsi di un paziente ivi inviato con diagnosi di politrauma da incidente stradale, pur posto di fronte a una situazione di emergenza palesata da sopravvenuti, gravi e improvvisi dolori addominali, indebitamente aveva rifiutato di visitarlo e di redigere il verbale di consulenza chirurgica prodromica al ricovero presso il reparto di chirurgia di urgenza, opponendo un generico e formalistico richiamo a disposizioni regolamentari o a protocolli operativi, di cui peraltro neppure era stata provata l'applicabilità al caso di specie.
La Corte ha rigettato il ricorso, anzi dichiarandolo inammissibile, perché manifestamente infondato. In proposito, la Corte è partita dall'equilibrato rilievo che non tutte le omissioni di ricovero ospedaliero da parte del medico di turno integrano la fattispecie penale prevista dall'articolo 328, comma 1, del Cp, ma soltanto quelle “indifferibili”, ossia quelle in cui l'urgenza del ricovero sia effettiva e reale, per l'esistente pericolo di conseguenze dannose alla salute della persona: pericolo da valutare in base alle indicazioni fornite dall'esperienza medica, tenendo ovviamente conto delle specificità di ogni singolo caso. In questa prospettiva, peraltro, ha precisato pertinentemente il giudice di legittimità, il potere demandato al medico di decidere sulla necessità del ricovero e sulla destinazione del paziente non può prescindere dal dovere di formulare una diagnosi o, comunque, di accertare le reali condizioni di chi, lamentando un grave stato di sofferenza, solleciti l'intervento sanitario: cosicché, il rifiuto di effettuare la visita medica, in tali circostanze, non integra una legittima valutazione discrezionale del medico, ma si risolve in un indebito comportamento omissivo.

Rifiuto da parte del sanitario di prestare soccorso - Nello specifico, quindi, l'illecito penale era ravvisabile in ragione del comportamento del medico che si era rifiutato ingiustificatamente di visitare il paziente, nonostante gli fosse stata rappresentata la situazione di urgenza in cui questi versava.
Un apprezzamento discrezionale, insindacabile ai fini e per gli effetti della sussistenza del reato, poteva semmai riconoscersi relativamente alla successiva determinazione, da assumere dopo la “doverosa” visita della paziente, di disporne o no il ricovero in chirurgia o, comunque, più in generale, di individuare il (ritenuto) miglior approccio terapeutico.

Rifiuto di atti d'ufficio e attività medica - La sentenza merita segnalazione perché affronta una problematica interpretativa, in tema di rifiuto di atti d'ufficio, oltremodo delicata: quella riguardante la configurabilità del reato previsto dall'articolo 328, comma 1, del Cp, che presuppone pur sempre che il “rifiuto” riguardi un “atto dovuto”, allorquando si verta in materie - quale, tipicamente, quella sanitaria - caratterizzate da ampi margini di valutazione discrezionale - sub specie, soprattutto, di discrezionalità tecnica- in capo al soggetto (il medico) richiesto del compimento dell'atto stesso.

In tali situazioni, può non essere semplice, per il giudice penale, procedere al “sindacato” della condotta del soggetto che abbia “rifiutato” di compiere un atto del proprio ufficio, per il rischio di sconfinamento nel “merito” della discrezionalità tecnica riservata all'agente (per quanto interessa: nel merito della scelta terapeutica attribuita all'apprezzamento tecnico del medico).
In proposito, rimanendo alla materia sanitaria, è innegabile che non può farsi discendere il reato, sempre e automaticamente, dal fatto obiettivo del rifiuto dell'intervento, non potendosi negare che al sanitario compete (o può competere) un ambito di valutazione discrezionale in ordine alla fattibilità, all'opportunità o alla eseguibilità dell'intervento richiestogli. Né può confondersi il piano della valutazione del rifiuto ex articolo 328 del Cp con quello della valutazione della eventuale colpa professionale (errore diagnostico o altro) che sia stata la causa dell'omissione di intervento, giacché, anzi, proprio l'accertata sussistenza di un errore di giudizio sulla sussistenza delle circostanze che rendono o no l'atto indifferibile, implica il venir meno del dolo richiesto dalla fattispecie incriminatrice. In tale evenienza, piuttosto, il comportamento “colposo” del medico potrà essere censurato invocando la disciplina sanzionatorio dell'omicidio o delle lesioni personali colposi, con riferimento ai “danni” che il paziente abbia subito per l'erroneo approccio terapeutico, ossia per l'omissione o il ritardo, colposamente determinati, nella diagnosi e/o nelle cure.
In realtà, per l'azionabilità del rifiuto, ex articolo 328, comma 1, del Cp, occorre che questo risulti “illegittimo”, antidoveroso e assistito dal dolo, e (solo) come tale sindacabile dal giudice penale, senza “tracimare” in valutazioni proprie della colpa professionale sanitaria, che esulano dalla struttura psicologica (dolosa) del reato.

La rilevanza penale del rifiuto - La rilevanza penale ex articolo 328, comma 1, del Cp del rifiuto è quindi subordinata a rigorose condizioni oggettive e soggettive. Sotto il profilo oggettivo, occorre la verifica positiva della doverosità e indifferibilità della condotta “rifiutata”. Ciò che si verifica quando le condizioni del paziente siano tali, per come rappresentate al medico, da imporre un sollecito e indilazionabile intervento per l'esistente pericolo di conseguenze dannose alla salute della persona, ovvero quando il sollecito e indilazionabile intervento sia comunque imposto dalla disciplina organizzativa di settore oppure dalla specificità del funzioni svolte dal sanitario.
Mentre, sotto il profilo soggettivo, per la rilevanza penale della condotta omissiva, occorre l'accertamento della consapevolezza da parte del sanitario di rifiutare un atto “doveroso” e “indilazionabile” e di violare, per effetto del rifiuto, i doveri di intervento impostigli, vuoi dalle emergenze fattuali della vicenda concreta, tali appunto da imporre l'intervento sollecito e indilazionabile, al fine di evitare anche la sola possibilità di conseguenze dannose dirette sul bene della salute fisica o psichica dell'utente, vuoi comunque da una regola comportamentale imperativa derivante dalla legge o dalle specificità delle mansioni svolte.
Non va dimenticato, a tale riguardo, che per la configurabilità del dolo del reato di cui all'articolo 328, comma 1, del Cp, occorre nell'agente non solo la consapevolezza e la volontà di rifiutare un atto dovuto, ma anche la consapevole volontà, che così operando, egli agisce indebitamente e cioè in violazione dei doveri impostigli.

Il sindacato del giudice - La valutazione della doverosità dell'intervento “rifiutato”, ai fini della eventuale configurabilità del reato di cui all'articolo 328, comma 1, del Cp, va effettuata “in concreto”, senza trascurare la peculiarità del singolo caso, in base alle indicazioni ricavabili dalla normativa relativa alla materia cui l'atto attiene ovvero, quando manchi un fondamento normativo direttamente disciplinante l'obbligo di intervento, in base a quelle fornite dalla scienza e dalla esperienza della professione medica, indicanti inequivocamente la necessità indilazionabile dell'intervento del sanitario, vuoi per ragioni connesse all'“urgenza” sostanziale desumibile dalle condizioni del paziente vuoi per ragioni connesse alle specifiche funzioni svolte dal sanitario. È nel rispetto di queste condizioni ed entro questo ambito valutativo che potrà ritenersi sussistente, per l'operatore sanitario, un margine di “discrezionalità” in ordine al rinvio o al non compimento dell'atto dovuto, incensurabile in sede penale e tale da escludere la rilevanza penale della condotta.
Il sindacato giudiziale è particolarmente delicato allorquando si discuta di un dovere di intervento imposto dalle condizioni di «indifferibile urgenza sostanziale», implicando una attenta disamina delle specificità del caso concreto. Il giudice deve controllare l'esercizio della discrezionalità tecnica da parte del sanitario e concludere che esso trasmoda in arbitrio, con conseguente configurabilità del reato, (solo) se tale esercizio non risulti sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli medici per esso richiamabili.

Qui, nella vicenda esaminata dalla Cassazione, l'“indifferibilità” dell'intervento risultava dimostrata dalle rappresentate gravi condizioni del paziente, politraumattizzato a seguito di incidente stradale, che lamentava forti dolori in una zona diversa da quella che già aveva portato a sottoporlo a esame specialistico.
Non vi è alcun “automatismo”valutativo - Emblematica, in proposito, è, per esempio, la vicenda processuale che ha portato la Corte di legittimità ad annullare la condanna pronunciata in sede di merito nei confronti di un medico cui era stato contestato di avere omesso di ricoverare nel reparto di chirurgia dell'ospedale, come richiestogli via telefonica dal medico di turno di altro ospedale, una paziente in preda a forti «dolori addominali per colica biliare» in atto. Secondo la Corte, infatti, la natura della patologia diagnosticata dal medico e comunicata telefonicamente all'imputato non presentava connotazioni che impedissero un idoneo trattamento presso l'ospedale ove la paziente era in atto ricoverata e imponessero il trasporto notturno presso il reparto di chirurgia di un'altra struttura, tanto più in mancanza dell'effettuazione da parte del responsabile della prima struttura sanitaria di ulteriori elementari accertamenti (ecografia, analisi cliniche e altro) utili a dare un quadro realistico della situazione in atto, al di là della soggettiva allarmata opinione del medico che ebbe a visitare la paziente. Una conferma ulteriore della assenza delle condizioni di “indifferibilità” dell'intervento doveva ricavarsi, secondo la Corte, anche dal fatto che l'intervento chirurgico, a cui venne poi sottoposta la paziente, era avvenuto a distanza di ben dodici giorni, così da confermare l'assenza della urgente necessità che la paziente fosse dirottata su un altro ospedale (si veda la sezione VI, 15 ottobre 2009, Dittoni).
Il dovere d'intervento - Il sindacato giudiziario è più “semplice” per le ipotesi del medico di guardia e del medico di pronta reperibilità, dove a supporto del dovere di intervento vi sono specifiche indicazioni normative. Infatti, con riguardo al medico di guardia, l'articolo 13 del Dpr 25 gennaio 1991 n. 41 prevede a carico di questi l'obbligo di rimanere a disposizione, durante il turno, «per effettuare gli interventi domiciliari o a livello territoriali che gli saranno richiesti» e di «effettuare al più presto gli interventi che gli siano richiesti direttamente dall'utente».

La necessità e l'urgenza dell'intervento dovranno essere apprezzate dal sanitario richiesto, come si desume indirettamente dal comma 4, lettera e) dello stesso articolo 13, che prescrive l'annotazione dell'ora in cui l'intervento è stato effettuato ovvero della «motivazione del mancato intervento», presupponendo perciò che esso possa anche non aver luogo per determinazione del sanitario. Tale determinazione può e deve essere sindacata dal giudice alla luce degli elementi di fatto a sua disposizione, onde accertare se la valutazione del sanitario sia stata correttamente effettuata oppure se la stessa costituisca un mero pretesto per giustificare l'inadempimento del dovere. Questa valutazione in ordine alla esistenza del connotato dell'urgenza, e, cioè, dell'indifferibilità dell'atto richiesto e dall'agente rifiutato, deve essere ovviamente eseguita ex ante, sulla base delle cognizioni accessibili all'agente al momento della richiesta e della rappresentazione della situazione di fatto da parte del richiedente, dovendosi escludere - anche in presenza di una situazione di urgenza obiettiva successivamente accertata - il dolo del reato nel caso in cui tale rappresentazione sia stata difettosa e il suo difetto abbia influito sulla valutazione operata dal soggetto richiesto dell'atto; e dovendosi, per converso, ritenere il reato allorquando al sanitario, che abbia ricusato di intervenire, sia stata rappresentata obiettivamente una situazione di grave sintomatologia imponente l'intervento, pur se poi le condizioni del paziente non siano risultate gravi in concreto. Mentre, con riferimento al servizio di reperibilità, la disciplina trova il suo fondamento nell'articolo 25 del Dpr 348/1983 . Su questi presupposti, concretandosi l'atto dovuto nell'obbligo di assicurare comunque l'intervento nel luogo di cura, il sanitario non può sottrarsi alla chiamata deducendo che, secondo il proprio giudizio tecnico, non sussisterebbero i presupposti dell'invocata emergenza.
L'obbligo di recarsi in ospedale a visitare il paziente, in questo caso, si configura «in termini formali», senza possibilità di «sindacato a distanza» da parte del sanitario chiamato. Con la conseguenza che l'apprezzamento tecnico non sindacabile riguarda solo il post rispetto all'intervento in loco: ossia, la determinazione del medico, dopo la visita effettuata, sul tipo di intervento da praticare.
E con l'ulteriore conseguenza che il rifiuto indebito di intervento va apprezzato e valutato avendo riguardo al momento in cui al sanitario è rappresentata la richiesta di intervento, essendo del tutto irrilevante (ai fini del reato di cui all'articolo 328, comma 1, del Cp) il concreto esito dell'omissione (cfr. sezione VI, 22 gennaio 2004, Galli): questo esito, potrà semmai fondare un ulteriore profilo di responsabilità (ex articoli 589 o 590 del Cp) laddove l'omissione di intervento abbia contribuito alla verificazione di un danno per il paziente, impedendo di salvarlo ovvero provocando al medesimo conseguenze patologiche suppletive.

Il dovere d'intervento posto dalle funzioni svolte - La verifica giudiziale è parimenti meno complessa anche nelle situazioni in cui la doverosità e l'indifferibilità dell'intervento non conseguono alla oggettiva (rappresentata) gravità delle condizioni del paziente, tali cioè da fondare il rischio per la sua salute, ma derivano dalla specificità delle funzioni svolte dal sanitario, tali a imporre oggettivamente la doverosità di un determinato comportamento, prescindendo dalle peculiari situazioni del singolo paziente. È l'ipotesi, per esempio, del medico anestesista che, dopo l'intervento chirurgico, non può allontanarsi, dovendo attendere il regolare risveglio del paziente e la completa ripresa di tutte le funzioni depresse dall'anestesia, cessando l'obbligo di assistenza solo quando i farmaci somministrati sono stati eliminati e c'è stato un recupero totale di tutte le funzioni.

Una soluzione corretta - È in questa prospettiva che non può che riconoscersi la correttezza della decisione in rassegna. Non si è sanzionata, sindacandola inammissibilmente “nel merito”, una scelta terapeutica del medico (che fosse intervenuta ex post, dopo l'assolvimento dell'obbligo inderogabile di visita del paziente). L'addebito, infatti, ha riguardato il comportamento omissivo del medico che, benché impostogli dalla rappresentatagli gravità delle condizioni del paziente, aveva scientemente omesso (cioè rifiutato) di compiere quanto impostogli dalle emergenze fattuali della vicenda: cioè sottoporre a visita il paziente, ai fini di una determinazione consapevole (assistita da legittima discrezionalità tecnica) di disporne o no il ricovero presso il reparto di chirurgia. Se il medico avesse effettuato la visita, nessuno avrebbe potuto porre in discussione (ex articolo 328, comma 1, del Cp) il suo comportamento; mentre, come anticipato, un problema di responsabilità penale (stavolta ex articoli 589 o 590 del Cp) si sarebbe potuto porre, semmai, solo rispetto a errori diagnostici (qui, in punto di necessità del ricovero per un intervento chirurgico), eziologicamente collegati a un evento dannoso (morte o lesioni) subito dal paziente.

Corte di cassazione - Sezione VI penale – Sentenza 5 novembre 2014 n. 45844

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