Lavoratore disabile, il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce discriminazione indiretta
Con l’ultimo arresto di pochi giorni fa, la Suprema Corte di Cassazione conferma il principio consolidatosi nel 2024
Come da facile profezia, il 2025 inizia con la conferma, ad opera dell’ordinanza n. 170 del 7 gennaio 2025 della Suprema Corte di Cassazione, di quel trend giurisprudenziale che rilegge in chiave di discriminazione indiretta la condotta del datore che eserciti il diritto di recedere dal rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL, laddove il lavoratore sia affetto da “disabilità” (sotto tale profilo è opportuno perlomeno ricordare che la definizione di “disabilità” è oggi in costante evoluzione in una chiave senz’altro espansiva, da un punto di vista non solo interpretativo ma anche di diritto positivo, in Italia da ultimo con il D.Lgs. n. 62 del 3 maggio 2024).
Si tratta di un orientamento, inaugurato con la pronuncia della Suprema Corte n. 9095 del 2023 (anche se invero si registravano pure in precedenza isolate pronunce di merito in tal senso), che poi si imponeva nel corso dell’anno appena passato (Cass. n. 11731 del 2024; Cass. n. 14316 del 2024; Cass. n. 14402 del 2024; Cass. n. 15282 del 2024; Cass. n. 30095 del 2024). Tra queste, di particolare interesse la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 14316 del 22 maggio 2024, che si è spinta a sancire un obbligo di diligenza particolarmente oneroso in capo al datore, il quale, laddove inconsapevole delle condizioni di salute del lavoratore, sarebbe ciononostante tenuto a farsi parte attiva ed acquisire dal lavoratore le informazioni volte a escludere che lo stesso versi in una situazione di “disabilità”.
Con l’ultimo arresto di pochi giorni fa, la Suprema Corte di Cassazione conferma il principio consolidatosi nel 2024, in un caso in cui il datore risultava essere a conoscenza dello stato di malattia grave del lavoratore che aveva superato il periodo di comporto, così ammonendo l’operatore su quale sia la posizione odierna dell’organo della magistratura depositario della funzione nomofilattica.
Resta sullo sfondo tuttavia il dubbio, francamente per nulla peregrino, che la normativa italiana sul comporto per come poi declinata dalla contrattazione collettiva sia già perfettamente compatibile con il diritto dell’Unione Europea, questione che è già stata rimessa, con ordinanza di rinvio del 4 gennaio 2024 emessa dal Tribunale di Ravenna, davanti alla Corte di Giustizia Europea; in questo contesto, la fretta con cui giurisprudenza di legittimità sembra oggi voler chiudere la questione interpretativa, anticipando la posizione che sarà assunta dalla Corte di Giustizia Europea, denota una presa di posizione chiara, in un contesto in cui però gli snodi interpretativi (e le implicazioni pratiche di tale orientamento) sono tutt’altro che chiari.
Il presunto principio euro-unitario che oggi la Corte di Cassazione applica si fonda infatti su pronunce relative a contesti normativi nazionali ben distinti da quello italiano.
Non è questa la sede per dilungarsi eccessivamente, ma basti ricordare che la sentenza del 18 gennaio 2018 della Corte di Giustizia (causa C-270/16) prendeva in esame l’ordinamento spagnolo, che, tuttavia, consente il licenziamento anche solo dopo alcune decine di giorni di malattia; i nostri CCNL prevedono invece periodi di comporto la cui lunga durata ragionevolmente già cattura i casi di “disabilità”, motivo per cui il rispetto del CCNL, di per sé, non potrebbe - perlomeno ad avviso di chi scrive – integrare fattispecie di discriminazione indiretta. E analogo ragionamento può farsi rispetto al richiamo al diritto danese (con riferimento alle sentenze della Corte di Giustizia HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011).
Per il momento dovremo attendere dunque l’esito del procedimento in corso davanti alla Corte di Giustizia Europea, ma nel frattempo prendere atto che la giurisprudenza italiana è oggi orientata ad assumere una posizione iperprotettiva, il che lascia l’interprete disorientato rispetto ai molteplici interrogativi che tale soluzione pone: quali sarebbero le condotte attive da porre in essere laddove il datore non fosse a conoscenza di una condizione di disabilità? Quali i confini con il diritto alla riservatezza e il divieto di indagine e accertamento sanitario da parte del datore di lavoro? E quali sarebbero le azioni di accomodamento che l’azienda sarebbe tenuta a porre in essere e quali i limiti di ragionevolezza e adeguatezza dei medesimi che non sfocino nella tolleranza dell’assenza del lavoratore? Quali infine i confini che, portando alle estreme conseguenze i principi della giurisprudenza di legittimità, devono porsi alla responsabilità del datore (o dell’INPS?) rispetto a periodi di malattia che, se non fossero garantiti (solo dalla stabilità del rapporto o anche dalla tutela economica? A carico di chi?), costituirebbero discriminazione indiretta?
Sono solo alcuni dei quesiti con cui stiamo imparando a convivere al fine di sciogliere i nuovi nodi che le recenti frontiere interpretative del diritto antidiscriminatorio pongono in relazione a istituti di pacifica e decennale applicazione e peraltro oggetto di contrattazione sindacale a livello nazionale.
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*Simone Carrà – Partner BCA Legal