Penale

Le procure: reato residuale e difficile da provare

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di Antonello Cherchi, Ivan Cimmarusti e Valentina Maglione

L’atto del pubblico ufficiale può anche essere illegittimo ma senza quel «dolo intenzionale» di arrecare un vantaggio a un terzo l’accusa crolla. Le procure italiane sono piene di denunce per abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del codice di procedura penale, ma la maggior parte finisce con una archiviazione o una assoluzione se mancano le prove di quella volontà del funzionario.

La procura di Roma
«È un reato in cui ci sono tanti input ma pochi output: ci arrivano diverse denunce ma è molto difficile da dimostrare sia sul versante della condotta che sul versante del dolo», spiega il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, responsabile del pool dei reati contro la pubblica amministrazione. Il rischio, infatti, è che chiunque rilevi una illegittimità in un atto dell’amministrazione possa ritenere esistente un abuso d’ufficio, con conseguente denuncia. Il risultato è duplice: la macchina burocratica dell’ente pubblico si inceppa, mentre l’ufficio giudiziario si ingolfa di procedimenti inutili.

Il caso della Capitale è abbastanza emblematico. Stando alle statistiche registrate al 2016 ben il 70% dei processi per abuso d’ufficio è finito in primo grado con una assoluzione piena. «Da allora - continua Ielo - dopo aver preso atto di tale dato, vi è stata una consistente riduzione delle contestazioni del reato d’abuso d’ufficio, valorizzando la necessità di individuare il dolo intenzionale», cioè quella volontà del pubblico ufficiale di creare un beneficio patrimoniale o un danno a un altro soggetto. Secondo Ielo si tratta di una norma «che andrebbe rimaneggiata, quantomeno nell’abuso compiuto a vantaggio di un soggetto. Si dovrebbero tipizzare dei casi specifici». Non solo: aggiunge che nell’accertamento dell’abuso «sono pochi gli strumenti investigativi, per esempio non possono essere compiute le intercettazioni». Si consideri, inoltre, che in quei casi, non rari, in cui il dolo intenzionale emerge da intercettazioni eseguite per altri reati, i risultati, secondo la giurisprudenza di legittimità, non possono essere utilizzati come prova del fatto.

La procura di Milano
Che l’articolo 323 del codice di procedura penale sia una norma residuale e di non facile applicazione lo conferma anche il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli, che coordina il dipartimento dedicato ai delitti contro la Pa. Ma per Romanelli il reato di abuso d’ufficio ha comunque «un proprio specifico campo di operatività. Certo, va usato a ragion veduta: nella realtà milanese mi sembra di poter dire che l’impiego sia stato e sia tuttora ragionevole e limitato a casi di “veri” abusi d’ufficio, senza alcuna pretesa da parte dei magistrati di sindacare il merito delle scelte discrezionali dei pubblici ufficiali. Nelle situazioni che ho direttamente conosciuto o coordinato - prosegue - è sempre emersa con chiarezza la prospettiva, la volontà e il risultato di favorire qualcuno o di danneggiarlo, anziché perseguire l’interesse dell'amministrazione».

Quanto ai numeri, sono stati 109 i procedimenti per abuso d’ufficio iscritti alla Procura di Milano nel 2018, in calo rispetto ai 139 del 2016. Di questi, «è possibile che molti vadano in archiviazione, ma bisogna avere la capacità di selezionare e di non sindacare la discrezionalità della Pa, che va esercitata senza paura». Tanto che Romanelli abbassa i toni sulla burocrazia difensiva: «I pubblici ufficiali che seguono le regole di base dell’azione amministrativa non hanno nulla da temere: è sufficiente il rispetto delle norme e del principio dell’imparzialità dell’azione amministrativa per poter fare con tranquillità qualunque scelta».

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