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Locazioni commerciali e Covid-19, il lockdown non consente la risoluzione di diritto del contratto

La decisione del tribunale di Roma affronta due questioni: la legittimità della garanzia collegata alla locazione e l'impossibilità di risolvere il contratto per cause legate alla "produttività" della conduttrice

di Andrea Alberto Moramarco

Le mutate condizioni economiche causate dalla pandemia in corso, che incidono sulla produttività di un’attività commerciale, non rilevano sotto il profilo causale del contratto di locazione. Pertanto, non può essere chiesta dal conduttore la risoluzione di diritto del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’utilizzazione della prestazione. Ad affermarlo è il Tribunale di Roma con una ordinanza datata 25 febbraio 2021 su un tema molto caldo e destinato ad avere sempre più spazio nelle aule di giustizia. Per i giudici capitolini, quindi, il Covid-19 e la normativa emergenziale che ha imposto il lockdown non possono condurre alla risoluzione dei contratti di locazione. Per il Tribunale, inoltre, se in relazione al contratto contestato vi è un contratto autonomo di garanzia a tutela delle ragioni del locatore, non assumo rilievo nemmeno le questioni sollevate dal conduttore in ordine alla buona fede contrattuale o alla mancata rinegoziazione del contratto.

Il caso

La vicenda riguarda le sorti di un contratto di locazione commerciale di un immobile di grandi dimensioni sito nel centro di Roma, stipulato a marzo del 2019 tra la società proprietaria del bene e una Srl - poi incorporata da una Spa – al fine di svolgere attività di vendita di valigeria e articoli da viaggio, per un canone annuale di 312 mila euro.

Com’è noto nel marzo del 2020 interveniva la normativa emergenziale che imponeva la chiusura totale di molte attività, tra le quali anche quella della società conduttrice. Immediatamente quest’ultima comunicava alla locatrice l’intenzione di risolvere il contratto per impossibilità sopravvenuta. Di fronte al netto rifiuto della proprietaria del bene, si succedevano proposte volte a ottenere una riduzione del canone o una rinegoziazione dell’intero contratto, a fronte delle mutate condizioni causate dalla pandemia, che di fatto rendevano impossibile per la conduttrice «utilizzare l’immobile in conformità all’uso pattuito». Non vi era più, infatti, quel «flusso continuo di turisti predisposti all’acquisto di beni» che giustificava un prezzo della locazione molto elevato.

Per tutta risposta la società locatrice decideva di attivare la polizza fideiussoria stipulata contestualmente al contratto di locazione, ottenendo così dalla banca che aveva concesso la garanzia il pagamento di quattro mensilità del 2020.

Le questioni giuridiche

Inevitabilmente la vicenda passava all’attenzione del Tribunale, al quale la conduttrice si era rivolta in via cautelare per ottenere lo stop all’escussione della polizza fideiussoria emessa a garanzia delle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione, in quanto da ritenere nulla per il contrasto con gli articoli 11 e 79 della legge n. 392/1978 (cosiddetta legge sull’equo canone), ovvero in contrasto con il dovere di buona fede contrattuale; con riserva di ogni azione per ottenere la risoluzione per impossibilità sopravvenuta.

Dopo il rigetto della domanda cautelare, la conduttrice presentava reclamo allo stesso Tribunale, il quale respinge però in toto la linea difensiva stante l’infondatezza del “fumus boni iuris”, ovvero la presunzione dell’esistenza requisiti necessari per ottenere un provvedimento di favore da parte del giudice.

Le questioni affrontate dal Tribunale sono due: la legittimità della garanzia collegata alla locazione e l’impossibilità di risolvere il contratto per cause legate alla “produttività” della conduttrice.

Legittima la garanzia a tutela del locatore

Quanto al primo aspetto, i giudici affermano che i richiamati articoli della legge n. 392/1978 non precludono affatto alle parti di pattuire garanzie ulteriori a tutela dell’interesse del locatore, oltre al deposito cauzionale. Non sussiste, infatti, alcun divieto al conduttore «di fornire una fideiussione o un contratto autonomo di garanzia a tutela delle ragioni del locatore», ponendo la suddetta legge limiti solo all’entità del deposito cauzionale, che non può essere superiore a tre mensilità. Nulla dunque, esclude «che le parti pattuiscano garanzie ulteriori a tutela dell’esecuzione delle altre obbligazioni discendenti dal contratto quale, ad esempio, quella di pagamento del canone.

Ciò posto, nel caso di specie, la garanzia stipulata dalle parti è qualificabile come contratto autonomo di garanzia e non come fideiussione, in quanto vi è l’espressa previsione del pagamento a “prima richiesta”, che si traduce nella impossibilità per il garante di opporre eccezioni o contestazioni di sorta, nonostante eventuali opposizioni da parte del conduttore. Proprio l’assenza dell’accessorietà distingue tale figura negoziale dalla fideiussione e impedisce l’opponibilità di eccezioni sul contratto garantito,- salvo l’”exceptio doli generalis”, ovvero «quando l’esercizio del diritto di garanzia avvenga in maniera strumentale e in mala fede nella consapevolezza, da parte del soggetto beneficiario, della insussistenza del diritto fatto valere». Ciò comporta l’impossibilità per i giudici di analizzare le questioni afferenti al contratto di locazione, quali la mancata rinegoziazione o l’eccessiva onerosità sopravvenuta.

La produttività rimane esclusa dalla causa del contratto

L’unica questione che può trovare ingresso è quella relativa alla presunta risoluzione di diritto per impossibilità sopravvenuta. Anche in questo caso, tuttavia, i giudici bocciano le considerazioni difensive della reclamante, che sottolineava il dovere di ritenere risolto il contratto anche in caso di impossibilità della «utilizzazione della prestazione della controparte», per il venir meno della causa del contratto. Il Tribunale sul punto taglia corto e afferma che nel contratto di locazione, anche commerciale, la causa «non si estende mai alla garanzia della produttività dell’attività imprenditoriale che il conduttore si accinge a svolgere nei locali concessi».

Non importa, cioè, lo specifico uso che il conduttore voglia fare dell’immobile locato. Questo solamente rileva: per il conduttore, ex articolo 80 della legge n. 392/1978, il quale non deve alterare la destinazione dell’immobile; per il locatore, nei limiti di cui all’articolo 1575 n. 2, il quale deve mantenere la cosa in stato da servire all’uso convenuto. Ciò significa, puntualizzano i giudici, che rileva solo la dimensione materiale e non quella giuridica o produttiva del bene, con la conseguenza che è irrilevante se tale uso sarà «sempre possibile o proficuo per il conduttore». D’altra parte, nota il Tribunale, tale circostanza è dimostrata dal fatto che la dimensione produttiva di un bene è presa in considerazione dal contratto di affitto, ex articolo 1615 del codice civile, che ha per oggetto proprio il godimento di una cosa produttiva, circostanza che marca la differenza con la locazione.

In definitiva, concludono i giudici, nella fattispecie la causa del contratto non è lo svolgimento dell’attività di valigeria ma l’idoneità dell’immobile allo svolgimento di tale attività. Pertanto, non può essere invocata la risoluzione di diritto del contratto sotto il profilo causale, né tantomeno sul presupposto della generica aspettativa al mantenimento delle condizioni di mercato, completamente mutate a causa della pandemia.

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