Penale

Militari, scatta il vilipendio per lo “sfogo” contro lo Stato su Facebook

La Corte di cassazione, sentenza n. 29723 depositata oggi, ha confermato la condanna ad un anno per un sergente che sul social aveva scritto “Italia di m…”

di Francesco Machina Grifeo

Rischia la condanna ad un anno di reclusione, per “Vilipendio della Repubblica”, il militare che pubblica su Facebook frasi ingiuriose nei confronti dello Stato e del Governo equiparandolo alla mafia, e utilizzando espressioni di disprezzo come: “Italia di m…” o “Stato di m…”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 29723 depositata oggi, confermando la decisione della Corte militare di appello di Roma e respingendo il ricorso di un sergente (a cui sono state riconosciute le attenuanti generiche prevalenti e i benefici di legge).

La Prima sezione penale ha per prima cosa respinto la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 81 c.p.m.p. (per violazione dell’articolo 3 della Carta) per la mancata previsione dell’autorizzazione a procedere del Ministro della Giustizia, diversamente da quanto previsto per l’analogo reato di cui all’art. 290 cod. pen., considerata la maggiore gravità del trattamento sanzionatorio. La scelta del Legislatore, infatti, non è irragionevole considerata la diversità tra i due reati dovuta sia alla qualità personale dell’autore, appartenente alle Forze armate, sia al diverso trattamento sanzionatorio (nel primo caso la pena va dai due ai sette anni, mentre l’analogo reato, art. 290 Cp, stabilisce una pena solo pecuniaria).

Per i giudici, infatti, le parole di disprezzo pronunciate contro lo Stato da chi è preposto alla sua tutela “inducono a mettere in dubbio la lealtà e la fedeltà di tale soggetto, e quindi anche le sue capacità e volontà di difendere le istituzioni repubblicane in caso di loro messa in pericolo”. Ugualmente, la scelta del Legislatore, di escludere per il reato militare la necessità dell’autorizzazione del Ministro della giustizia, appare dettata, non irragionevolmente, proprio dalla ritenuta maggiore gravità del delitto, se commesso da un militare, che rende la sua “repressione indispensabile, e non soggetta a valutazioni di opportunità politica”. Non si tratta dunque, come affermato dal ricorrente, di una “garanzia processuale” che sarebbe venuta a mancare.

Riguardo poi alla invocata esimente dell’art. 51 Cp, la Cassazione chiarisce che il diritto di critica “trova il suo limite nell’uso di espressioni gratuitamente volgari, offensive e lesive del prestigio del soggetto criticato”. In questo senso, i giudici di merito hanno valutato la gratuità dei termini volgari e ingiuriosi utilizzati, non inseriti in un discorso strutturato di critica politica né riferiti a specifici comportamenti, “bensì diretti a svilire e dileggiare non solo il governo in carica ma lo Stato stesso e l’intera classe politica”. Il dolo richiesto dall’art. 81 c.p.m.p., ricorda infatti la decisione, è un dolo generico, che consiste nella mera coscienza e volontà di indirizzare allo Stato e alle istituzioni repubblicane parole offensive e contenenti disprezzo.

Né vale l’argomentazione difensiva che chiama in causa il “clima dell’epoca”, caratterizzato da “profonda sfiducia nella classe politica tradizionale”, e del mezzo usato: i social network, dove “l’utilizzo di un linguaggio non formale, ed anzi aggressivo e disinvolto” sarebbe la norma. La legittimità della critica politica, prosegue la decisione, non autorizza ad utilizzare termini che per la loro “gratuita oltraggiosità e portata denigratoria”, eccedano i limiti. Riguardo invece alla cd “evoluzione” del linguaggio, in particolare l’uso nei social network di “termini crudi e diretti”, per la Cassazione la Corte di merito ha comunque ritenuto il contenutoinaccettabile anche alla luce di tali possibili giustificazioni, ribadendone la portata fortemente denigratoria e spregiativa”.

Infine, con riferimento al termine “rivolta”, la Cassazione afferma che, contrariamente a quanto sostenuto, esso non è stato caricato di una “valenza sovversiva”, ma piuttosto se ne è sottolineato il «tratto offensivo e spregiativo» e non è stato dunque inteso “come proposito o istigazione a passare a vie di fatto».

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