Omicidio della compagna, più difficile provare il vizio di mente
Per la Cassazione, sentenza n. 29849 depositata oggi, anomalie caratteriali o alterazioni della personalità non danno luogo alla non imputabilità
Linea dura della Cassazione sulla non imputabilità dell’imputato nel caso di uccisione della convivente e della di lei madre. La Prima Sezione penale, infatti, con riguardo ad un gravissimo caso di cronaca, ha affermato che ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, “se è vero che anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto d’infermità, è del pari certo che ciò si afferma con la necessaria specificazione che tale approdo può darsi soltanto quando essi siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o facendola grandemente scemare, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”.
Non può, dunque, annettersi rilievo, ai fini dell’imputabilità, “ad anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, al pari degli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio d’infermità”. La Prima sezione penale, sentenza n. 29849 depositata oggi, ha così confermato l’ergastolo (con isolamento diurno per un anno) per un uomo che aveva ucciso a coltellate la convivente e sua madre, dopo aver appreso la volontà di lasciarlo.
Il delitto particolarmente efferato è maturato all’esito di una “grave crisi” che la coppia – che conviveva da diciannove anni e dalla cui relazione erano nati due figli, all’epoca minori – stava attraversando soprattutto in seguito alla nascita della secondogenita, “evento – si legge - che aveva intensificato i dissidi e le incomprensioni tra i due, da ultimo sfociati in aggressioni fisiche e minacce verbali nei riguardi della donna, tant’è che da qualche mese l’uomo dormiva sul divano posto nel soggiorno di casa”.
Qualche minuto prima del delitto, la donna aveva comunicato via Messanger di Facebook all’imputato la decisione “irretrattabile” di separarsi: siamo alle ore 00,52; la chiamata al 118, da parte del figlio, è invece delle 00,56. Entrambi gli omicidi, dunque, si sono consumati nel breve volgere di quattro minuti. L’imputato ha avuto come primo bersaglio la compagna colpita con oltre venti coltellate, delle quali due mortali; e poi, con la stessa arma, ha inferto tre fendenti, di cui uno mortale, alla madre. All’esito di entrambi i gradi di merito è scattata dunque la condanna per duplice omicidio volontario, il primo aggravato dall’art. 577, primo comma n. 1), cod. pen.. Mentre si è esclusa la sussistenza di elementi sulla scorta dei quali dubitare della piena capacità di intendere e volere dell’imputato, non ritenendosi necessaria la pur richiesta perizia volta ad accertarne l’imputabilità.
Contro questa decisione ha proposto ricorso l’imputato che ha sostenuto sia l’obliterazione del vizio di mente; sia l’assenza dell’aggravante di cui all’art. 577, primo comma n.1), cod. pen. Entrambi i motivi, per la Cassazione, sono però da rigettare. Sotto il primo profilo, la Corte di assise di appello ha rimarcato l’assenza di qualsiasi diagnosi di anomalia o pregresso disturbo psichico e l’irrilevanza delle emergenze provenienti dagli Istituti di pena, “esclusivamente indicativi di una situazione compatibile di shock postraumatico derivante dalla commissione dei fatti, che – osserva il Collegio – si saldano perfettamente con il rilevato movente, non collegabile a patologia psichica”.
Riguardo invece alla mancata disposizione della perizia psichiatrica richiesta, la Cassazione afferma che l’obbligo, per il giudice, di motivare il giudizio sulla sussistenza della capacità d’intendere e di volere e, specularmente, quello sulla superfluità di una perizia volta ad appurarne l’integrità, “va posto in stretta correlazione con la prospettazione, da parte della difesa, di elementi specifici e concreti, idonei a far ragionevolmente ritenere che nella singola fattispecie detta presunzione sia superata da risultati di segno contrario, per l’incidenza di una vera e propria infermità, e cioè di uno stato morboso caratterizzato da inequivocabili connotazioni patologiche”.
Riguardo, infine, la contestata aggravante (art. 577, primo comma n. 1, cod. pen.) della «stabile convivenza», per la Cassazione il ricorrente mostra di confondere i distinti profili della «relazione affettiva» e della «stabile convivenza», ora previsti dall’aggravante come situazioni alternative, essendo stato commesso il fatto nel vigore (dal 9 agosto 2019) della novella legislativa l. n. 69 del 2919. “La scelta del legislatore – si legge nella decisione - è proprio quella di fornire un più elevato livello di tutela a coloro i quali si trovino a dover condividere uno spazio abitativo - finché la coabitazione ha luogo - anche nel momento (che è quello di maggiore fragilità) in cui la condivisione emotiva sia venuta meno, come nel caso che ci occupa in cui le Corti di merito hanno – con motivazione aderente alle risultanze di prova – posto in risalto il fatto, rimasto incontrastato, che donna aveva consentito all’ex compagno di vita di restare presso la casa coniugale nell’interesse di quest’ultimo come anche dei figli minori”.
L’opzione del legislatore, spiega la Corte, è quella di tutelare in modo rafforzato (attraverso la previsione di un incremento sanzionatorio del delitto di omicidio) i soggetti che abbiano vissuto una concreta comunanza di vita con il colpevole, con linea di demarcazione basata sul dato oggettivo della convivenza fisica. “Sin quando la convivenza permane la tutela è massima (con maggior disvalore del fatto, punito con l’ergastolo) mentre quando cessa l’omicidio, pur restando di maggiore gravità - rispetto a quello comune - viene punito con pena temporanea”.
Nel caso oggetto del presente giudizio, pertanto, a nulla rileva che la coppia fosse da tempo in una condizione di elevata conflittualità, posto che la condotta omicida è avvenuta in un momento in cui la convivenza fisica era ancora in atto.