Phishing, non c'è reato se manca la consapevolezza della provenienza illecita del denaro
Il phishing, ovvero la tecnica mediante la quale il criminale informatico cerca di procurarsi, attraverso raggiri di varia natura perpetrati su internet dati riservati al fine di impossessarsi di somme di denaro da ignari correntisti, è inquadrabile nel reato di riciclaggio di cui all'articolo 648-bis del codice penale.Tale condotta è punibile solo se c'è la consapevolezza dell'illecita provenienza del denaro oggetto delle operazioni di trasferimento, non essendo sufficiente a integrare il dolo il mero sospetto della illiceità. Questo è quanto affermato dalla sentenza della Corte d'appello di Palermo 1024/2015.
Il caso - La ignara protagonista della vicenda è una ragazza che, in cerca di lavoro, aveva risposto ad un annuncio pubblicato sul web da una falsa società che era alla ricerca di amministratori per gestire la propria filiale italiana. La ragazza, dopo ave inviato il suo curriculum, veniva selezionata dagli organi di vertice di questa società e firmava un finto contratto di lavoro part-time ben retribuito. Per i primi mesi di lavoro il compito della nuova assunta avrebbe dovuto consistere nel trasferimento di somme di denaro accreditate sul suo conto Postepay ad altro conto intestato ad un cliente ucraino, previa decurtazione della propria provvigione.
La ragazza aveva subito ricevuto sulla sua carta prepagata due ricariche di poco superiori a 1.000 euro in due giorni successivi e aveva proceduto a sua volta al trasferimento delle somme sul conto indicatole. Il secondo trasferimento veniva però bloccato da Poste Italiane, in quanto oggetto di frode informatica. In seguito, con la denuncia da parte della società dai cui conti erano stati sottratti i soldi inviati, le indagini e l'imputazione nei confronti della ragazza per il reato di riciclaggio di cui all'articolo 648-bis del Cp.
La decisione del Gup - In sede di giudizio abbreviato, l'imputata riteneva di essere stata raggirata e produceva le mail scambiate con gli amministratori della società che l'aveva assunta, oltre alla comunicazione pubblicata da Poste italiane sul portale “Anti-phishing Italia”, con la quale si allertavano gli utenti che la società in questione era in realtà uno strumento di truffe e riciclaggio online.
Il giudice di prime cure, tuttavia, non aveva dubbi sulla responsabilità penale della ragazza e affermava che la stessa aveva contribuito alla “triangolazione” «che non aveva altro scopo che quello di occultare il denaro proveniente da un furto operato da ignoti per via informatica». Per il Gup sussistevano, infatti, tutti gli elementi della fattispecie in quanto la ragazza aveva «non soltanto messo a disposizione il suo conto corrente - con funzione di schermo e di conto di transito - ma, una volta ricevuto l'accredito del denaro, lo aveva prelevato e, dedottane la provvigione pattuita, lo aveva trasferito ad un soggetto sconosciuto e non identificabile». Quanto all'elemento soggettivo, il dolo era rinvenibile «nella condotta dell'imputata che, rispondendo ad una offerta di lavoro dai connotati peculiari ed atipici, tuttavia smaccatamente fasulla, accettava quantomeno il rischio di concorrere al perfezionamento del reato di riciclaggio». In sostanza, per il Gup l'ingenuità della ragazza non poteva escludere il dolo.
La decisione della Corte d'appello - Di diverso avviso si è mostrata però la Corte d'appello che ha invece assolto l'imputata perché il fatto in esame non costituisce reato, non ritenendo integrato l'elemento soggettivo del delitto di riciclaggio. I giudici accolgono infatti i motivi di appello della difesa della ragazza che facevano leva in sostanza sulla ingenuità mostrata da questa attraverso sia l'invio del curriculum, sia la tracciabilità delle operazioni effettuate con la sua carta prepagata. Per la Corte, è vero che la condotta del soggetto che riceva terzi i proventi del phishing è, in linea astratta, inquadrabile nella fattispecie di cui all'articolo 648-bis del Cp; tuttavia, è anche vero che in tali ipotesi è necessaria la consapevolezza da parte dell'agente della provenienza illecita del denaro, nonché della stessa illiceità delle operazioni da compiere.
E nel caso di specie, la giovane età, le difficili condizioni economiche e l'ingenuità mostrata dalla ragazza sono tutti elementi che tendono a far escludere tale consapevolezza non potendo il «mero sospetto dell'illiceità delle operazioni da lei compiute» essere sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo del reato.
Corte d'Appello di Palermo - Sezione IV penale - Sentenza 18 marzo 2015 n. 1024