Penale

Tentato abuso d'ufficio per chi si fa aiutare all'esame di abilitazione da avvocato

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di Patrizia Maciocchi

Concorre come “estraneo” nel reato di tentato abuso di ufficio l'aspirante legale che si fa passare le tracce scritte per l'esame di abilitazione professionale, grazie all'aiuto di pubblici ufficiali. Il reato scatta anche se l'obiettivo viene mancato, non per desistenza volontaria, ma perché il candidato viene bocciato. La Corte di cassazione, con la sentenza 10567, respinge il ricorso della candidata che aveva deciso di farsi dare un'”aiutino” da una cancelliera presso il tribunale di sorveglianza che, nello specifico, doveva vigilare sul corretto svolgimento della prova e dalla sorella di quest'ultima. Alla ricorrente era stato consegnato il “compito” già fatto nei bagni della sede in cui si teneva la prova. Ma ad incastrarla erano state le intercettazioni delle telefonate tra la cancelliera-vigilante e l'aspirante legale. E proprio sull'inutilizzabilità delle intercettazioni si spende la difesa della ricorrente, ricordando che l'autorizzazione alle “registrazioni” era stata data per verificare l'ipotesi del reato di atti falsi, confezionati in favore di noti pregiudicati sempre dalla cancelliera con un altro indagato, oltre che per abuso di ufficio e rivelazione del segreto d'ufficio. Reati ai quali la ricorrente era certamente estranea. La tesi difensiva però non passa. La Suprema corte precisa, infatti, che le intercettazioni legittimamente autorizzate sono utilizzabili, se da queste emergono elementi di prove relativi da un reato totalmente svincolati da quello per il quale era stato dato il via libera. Né è utile ad escludere il reato il fatto che la candidata avesse tenuto il cellulare spento, perché il telefono doveva servire come estrema ratio nel caso “l'accordo di assistenza ad ampio spettro” non fosse stato sufficiente. La ricorrente è condannata anche alle spese del processo e non passa neppure l'esame, circostanza che poco c'entra con la desistenza volontaria affermata dalla difesa.

Corte di cassazione – Sezione VI – Sentenza 8 marzo 2018 n. 10567

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