Penale

Tentato omicidio per il marito che stringe il collo della moglie sollevandola

La Cassazione, sentenza n. 48845 depositata oggi, ha giudicato inammissibile il ricorso del marito che sosteneva l’inidoneità della condotta a cagionare la morte della donna

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di Francesco Machina Grifeo

La Cassazione, sentenza n. 48845 depositata oggi, conferma la condanna a 10 anni per tentato omicidio (e maltrattamenti in famiglia) nei confronti di un uomo che dopo aver afferrato la moglie per il collo ed averla spinta contro il muro, “esercitando una pressione crescente, l’aveva sollevata da terra, provocandone l’offuscamento della vista e
una momentanea perdita di conoscenza”. L’azione era stata poi interrotta dall’intervento del figlio che, a sua volta, aveva afferratole braccia del padre inducendolo a lasciare la presa. Dal referto del Pronto soccorso risultavano quattro aree ecchimotiche di circa 5 cm x 1 cm nella regione laterocervicale.

Per il ricorrente invece l’azione non era idonea a cagionare la morte della donna. Deporrebbe per questa tesi la circostanza che la presa del collo era avvenuta con la mano sinistra da parte di un soggetto destrorso non dotato di particolare muscolatura. Inoltre, mancherebbero segni clinici premonitori dell’evento morte, dal momento che l’annebbiamento della vista non è un parametro tecnico-scientifico.

Una lettura bocciata dalla Cassazione secondo cui la Corte di appello dopo aver ricostruito la dinamica dell’aggressione ha spiegato, avvalendosi di perizie, che “il collo è sede di organi vitali e che la loro compromissione può determinare gravi conseguenze, che da un iniziale venir meno della coscienza - come avvenuto nella specie - possono condurre alla morte”. Non solo, l’idoneità dell’azione a cagionare la morte “era resa evidente dalla intensità della presa esercitata sul collo, che era stata tale da cagionare le quattro ecchimosi riscontrate al pronto soccorso” oltre all’annebbiamento della vista e la temporanea perdita della coscienza. Irrilevante dunque il fatto che la persona offesa non presentasse i sintomi indicati dal consulente della difesa (disfonia, disfagia, scialorrea o dispnea).

Per la configurabilità del reato tentato, spiega la Corte, “l’idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto”.

In definitiva, per la Suprema corte, i giudici del merito si sono correttamente attenuti all’insegnamento per cui “la scarsa entità (o anche l’inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee ad escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa, ovvero, come nella specie, all’intervento di un terzo”.

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