Un esempio di “economia circolare” nel settore energetico: le comunità di energia rinnovabile (CER)
Tre le caratteristiche principali: autonomia rispetto ai propri partecipanti; partecipazione aperta e volontaria e assenza di scopo di lucro
Come abbiamo già visto in precedenza (Fotovoltaico e real estate, quando un’investimento si trasforma da necessità in opportunità, Contratti di fornitura energetica, natura e caratteristiche dei “power purchase agreements”) gli obblighi imposti dalla normativa dell’Unione europea e da quella italiana in materia di efficientamento energetico e progressivo abbandono delle fonti fossili impongono un aumento degli impianti destinati alla produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il singolo individuo o la piccola media impresa (“PMI”) non ha, però, spesso la convenienza economica o la disponibilità di aree utili per la realizzazione di un impianto destinato esclusivamente al soddisfacimento delle “proprie” esigenze di autoconsumo. Per questa ragione, la stessa normativa europea favorisce la creazione di “gruppi” di soggetti che, sotto forma diversa, “condividono” l’energia prodotta da un impianto proprio o di terzi (di potenza massima pari ad 1 MW), così come i relativi benefici.
Il più noto esempio in tal senso è rappresentato dalle comunità di energia rinnovabile (“CER”), previste dall’art. 22 della direttiva (UE) n. 2018/2001 (c.d. “RED II”) e dall’art. 42-bis del d.l. n. 162/2019, oggi fortemente incentivate dal D.M. 7 dicembre 2023 n. 414 (c.d. “Decreto CACER”), sottoforma di tariffa premio e, nel caso di impianti realizzati in Comuni con meno di 5.000 abitanti, contributi in conto capitale a fondo perduto fino al 40% dei costi di investimento.
A differenza di altre configurazioni di autoconsumo diffuso (si pensi ai “gruppi di autoconsumo collettivo”, “GAC”), la CER deve essere un soggetto giuridico, con o senza personalità, e deve, dunque, dotarsi di uno statuto che regola i rapporti tra gli associati. Ai sensi dell’art. 31 comma 1 d.lgs. n. 199/2021, tre sono le caratteristiche principali di tale veicolo:
(i) autonomia rispetto ai propri partecipanti;
(ii) partecipazione aperta e volontaria;
(iii) assenza di scopo di lucro.
Proprio quest’ultimo aspetto esclude in nuce la possibilità che la CER possa essere una s.r.l. o una s.p.a., mentre, ad esempio, è ammesso il ricorso all’associazione, alla cooperativa e alla fondazione, forme giuridiche la cui scelta dipende da considerazioni in termini di future strategie (la CER intende effettuare investimenti? Intende realizzare impianti in proprio?) e da una corretta e preventiva pianificazione fiscale, considerati, in particolare, i tre principali ricavi che derivano agli associati dalla partecipazione alla CER, ossia (i) la tariffa premio, (ii) la restituzione degli oneri di rete e (iii) la valorizzazione dell’energia immessa in rete.
Membri della CER possono essere sia “clienti finali” (persone fisiche, imprese, enti del terzo settore, enti religiosi ecc.), che beneficiano di un costo dell’energia ridotto rispetto a quello di mercato (consumer), che produttori di energia che cedono agli altri membri della CER l’energia prodotta dal proprio impianto e ne sono essi stessi consumatori (prosumer). Non possono, però, partecipare alla CER – a differenza di quanto accade per i GAC – le “grandi imprese”, ossia imprese che abbiano più di 250 occupati e un fatturato annuo superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo superiore a 43 milioni di euro, e le amministrazioni centrali dello Stato. Anche in questo caso, come per i GAC, non possono aderire alla CER neppure le imprese la cui attività principale sia appunto la produzione e/o la vendita di energia.
La CER è, quindi, uno strumento di “economia circolare” finalizzato allo sviluppo ambientale, economico e sociale della comunità locale tramite la redistribuzione tra i suoi membri dei vantaggi economici alla stessa assegnati dal legislatore. È proprio in questa prospettiva che l’eventuale importo della tariffa premio eccedentario, rispetto a quello determinato in applicazione del valore soglia di energia condivisa espresso in percentuale (55%), è destinato ai soli consumatori diversi dalle imprese e/o utilizzato per finalità sociali aventi ricadute sul territorio in cui è ubicato l’impianto.
Alla luce della funzione “locale” e “collettiva” della CER, non stupisce che un ruolo primario nell’istituzione di tale soggetto sia svolto dagli enti collettivi (enti del terzo settore, enti religiosi e, soprattutto, enti pubblici), soprattutto se territoriali come i Comuni. Questi ultimi, infatti, possono limitarsi a favorire a livello politico l’iniziativa di un soggetto privato che intenda istituire una CER o promuoverne essi stessi la creazione tramite un “partenariato pubblico privato” (“PPP”), eventualmente mettendo a disposizione della CER i lastrici solari dei propri immobili o altre aree nella propria disponibilità non altrimenti utilizzate per la realizzazione, da parte di terzi o della stessa CER, degli impianti destinati all’uso da parte dei membri della comunità energetica.
Va certamente ricordato, in proposito, che anche in questo settore l’azione degli enti pubblici non può prescindere dalle regole contenute nel d.lgs. n. 175/2016 (“Testo unico sulle società a partecipazione pubblica”, “Tusp”) che impone loro, nel caso in cui intendano non limitarsi ad una funzione di incentivo, ma aderire essi stessi ad una CER, di individuare gli effettivi vantaggi/benefici derivanti da tale partecipazione (art. 5). Tali enti dovranno inoltre fornire una motivazione “rafforzata” in relazione alle ragioni della partecipazione, anche minoritaria, all’interno della CER.
Un tema di notevole interesse in relazione alla CER è quello della sua governance, che trova una sua disciplina di maggior dettaglio nelle Regole operative del GSE, in base alle quali il potere di “controllo” nella comunità può essere detenuto soltanto da persone fisiche, PMI (la cui attività principale non sia però proprio la partecipazione alla CER), associazioni con personalità giuridica di diritto privato, enti territoriali o autorità locali, compresi appunto i Comuni, enti di ricerca e formazione, enti religiosi, del terzo settore e di protezione ambientale, nonché dalle amministrazioni locali di cui all’elenco ISTAT situate nel territorio degli stessi Comuni in cui sono ubicati gli impianti di produzione detenuti dalla CER. Solo tali soggetti possono, dunque, indirizzare la CER, garantire il conseguimento dello scopo statutario e il rispetto del quadro normativo e regolatorio di riferimento.
Nei rapporti esterni, la CER ha, invece, necessità di individuare un “referente” con adeguate competenze settoriali, anche solo relativamente alla gestione operativa della CER, che può essere lo stesso rappresentante legale della comunità oppure, a seguito di sottoscrizione di apposito mandato senza rappresentanza di durata annuale, tacitamente rinnovabile e revocabile in qualsiasi momento, un produttore o un cliente che aderisce alla CER o un produttore terzo-ESCO proprietario dell’impianto che rileva nella configurazione di autoconsumo. Da questo punto di vista il ruolo di supporto operativo alle CER da parte di ESCO e/o delle utilities, forti della loro expertise di settore, diventerà cruciale.
Va poi detto che il membro della CER è libero di cambiare il proprio fornitore di energia ed uscire in qualsiasi momento dalla CER, anche se, in questo caso, alla luce degli investimenti effettuati, è ragionevole che gli sia richiesto il pagamento di un corrispettivo o di un indennizzo, purché predeterminato ed equo e proporzionato.
La realizzazione di una CER, dunque, richiede di effettuare una serie di valutazioni preliminari di ordine giuridico, regolamentare e fiscale, secondo un approccio multidisciplinare, senza le quali la stessa predisposizione del progetto di comunità potrebbe rischiare di non approfittare pienamente di tutti i benefici previsti dall’ordinamento.
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*A cura di Francesco Assegnati - Partner, Francesco Piron - Partner e Giuseppe Serranò - Senior Associate - CBA Studio Legale e Tributario