Comunitario e Internazionale

Emissioni di carbonio, ancora poco adeguati e trasparenti i regimi di divulgazione volontari e obbligatori

La scarsa regolamentazione sulle informazioni diffuse dalle aziende ed elaborate dalle agenzie di rating rende difficile distinguere tra aziende ad alta e bassa performance

Greenhouse concept with CO2 gas - 3d rendering

di Marco Letizi*

 EU ETS, le debolezze del sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra e il rischio di carbonwashing (PRIMA PARTE)

Le imprese comunicano la loro performance in termini di emissioni di carbonio agli stakeholder attraverso una serie di canali come, ad esempio, il bilancio di sostenibilità previsto dalla CSRD, un report in materia di CSR, ovvero informazioni pubblicate sui siti web aziendali. In particolare, le imprese possono rientrare, sulla base di specifici requisiti normativamente previsti, nei regimi di divulgazione obbligatoria come il sistema UE ETS, oppure possono aderire a iniziative di rendicontazione volontaria, che esistono per incoraggiare la trasparenza delle imprese sulle emissioni di carbonio e per fornire a diversi gruppi di stakeholder l’accesso a tali informazioni. Ad esempio, CDP è il più grande e completo di tali regimi e raccoglie i dati attraverso un dettagliato questionario annuale inviato alle imprese che riguarda le metriche delle emissioni, la strategia, la governance e la gestione dei rischi climatici.

Gli schemi volontari sono di solito meno rigidi per quanto riguarda le pratiche di rendicontazione e più flessibili per quanto riguarda i quadri contabili applicabili rispetto ai regimi obbligatori, con particolare riferimento al tipo di emissioni che le imprese sono incoraggiate a comunicare.

Una volta che un’impresa rende nota la propria performance in termini di emissioni di carbonio, i dati vengono spesso aggregati e analizzati da agenzie di rating indipendenti che fungono da intermediari tra la divulgazione delle aziende e gli investitori che desiderano accedere a quei dati e utilizzarli in un formato accessibile al pubblico o in un database centralizzato. Inoltre, le agenzie di rating creano indicatori e metriche basate sui dati forniti dalle aziende con l’obiettivo di aumentare la comparabilità dei dati e, in ultima analisi, di distinguere i risultati ad alto contenuto di carbonio da quelli a basso contenuto di carbonio. Tuttavia, a livello globale, la maggior parte delle informazioni disponibili o dei dati disseminati, in termini di emissioni di carbonio, non è attualmente soggetta a regolamentazione e, di conseguenza, i dati sulle emissioni di carbonio sono anzitutto (e soprattutto) una forma di comunicazione ambientale a livello aziendale auto-dichiarata.

È noto a tutti come l’impronta di carbonio sia una misura comune per tenere conto delle emissioni associate a uno specifico prodotto, attività o unità e venga spesso citata dagli operatori della finanza sostenibile per valutare il potenziale di riduzione delle emissioni di un determinato finanziamento. Tuttavia, le imprese spesso si preoccupano di ridurre la loro impronta operativa, in particolare le emissioni degli Scope 1, 2 e 3, perdendo l’opportunità di investire in iniziative di decarbonizzazione che producano impatti scalabili a livello di sistema.

Al riguardo, TCFD incoraggia le imprese a divulgare ulteriori informazioni relative alle emissioni di carbonio riguardanti la governance, la strategia, la gestione del rischio, gli obiettivi di riduzione e le metriche contabili; successivamente, le imprese riportano dette informazioni, in linea con le aspettative degli investitori, e CDP raccoglie tali dati attraverso il suo questionario annuale. 

Le imprese possono anche includere gli investimenti dedicati alla riduzione delle emissioni di carbonio tra le misure previsionali di natura strategica, al pari degli obiettivi carbon-neutral, net-zero o carbon-negative. Negli ultimi anni, oltre ottocento imprese si sono impegnate al conseguimento di obiettivi basati sulla scienza (science-based targets), volti ad allineare le strategie di mitigazione del clima a livello aziendale con i modelli climatici dell’International Energy Agency (IEA) per raggiungere l’obiettivo di emissioni di 2ºC previsto dall’accordo di Parigi. In particolare, imprese multinazionali, come Microsoft e Unilever, hanno implementato prezzi interni per le emissioni di carbonio come forma di autoregolamentazione, anche se sono state sollevate preoccupazioni sull’efficacia di tali strumenti proprio in ragione dell’incoerenza dei dati sulle emissioni di GES che apre un dibattito su scala internazionale proprio in tema di adeguatezza e trasparenza dei regimi di divulgazione volontari e obbligatori con riferimento ai livelli di emissioni di carbonio.

La divulgazione di dati nell’ambito dei regimi volontari, come il CDP , rimane in gran parte non verificata e si è riscontrato che le imprese impiegano una varietà di metodi per divulgare le emissioni dirette e indirette, rendendo potenzialmente inaffidabili tali informazioni; in particolare, molte imprese, operanti in settori ad alta intensità di carbonio, non divulgano affatto i dati relativi al clima. Per esempio, alcuni studi hanno evidenziato che in Giappone solo poche società quotate in borsa, operanti in settori con i maggiori rischi di transizione, hanno dichiarato le loro emissioni nell’ambito del quadro di divulgazione del CDP. Tale situazione, certamente non limitata al Giappone, aumenta il rischio che i dati sulle emissioni di carbonio a livello di impresa continuino a mostrare bassi livelli di trasparenza e che rimangano in gran parte dipendenti dalla divulgazione volontaria; inoltre, anche i requisiti di rendicontazione obbligatoria sono spesso inefficaci per aumentare la comparabilità dei dati.

Sebbene il TCFD raccomandi alle imprese di comunicare le informazioni nei documenti finanziari, è prassi comune che le imprese inseriscano tali informazioni all’interno di rapporti di sostenibilità spesso non verificati.

La significativa ambiguità sui metodi impiegati in questi report di sostenibilità e le sostanziali divergenze sulle metodologie di determinazione dei rating ESG dimostrano come il problema dell’incoerenza e dell’utilizzo dei dati sulle emissioni di carbonio sia piuttosto evidente.

Peraltro, le agenzie di ESG rating appaiono poco affidabili, scegliendo dimensioni, metriche e pesi diversi quando valutano le performance ESG delle imprese. Tutto ciò ha portato a una scarsa convergenza tra valutazioni anche quando, nel corso della costruzione dei rating, si tenta di mitigare le differenze esplicitamente richiamate. Per esempio, le valutazioni possono essere incentrate su processi aziendali o sui risultati a livello di processo e condizionate dalle diverse dimensioni che influenzano la performance aziendale.

Sebbene gli investitori abbiano necessità di ottenere informazioni previsionali allo scopo di valutare, in chiave prospettica, le performance aziendali in un contesto di rischi e opportunità, tuttavia le potenzialità predittive delle informazioni elaborate dalle agenzie di rating appaiono, a tutt’oggi, piuttosto discutibili anche in ragione di una mancanza di chiarezza circa le modalità di costruzione di detti rating e ciò rende difficile distinguere tra aziende ad alta e bassa performance.

Un altro aspetto che ha suscitato un grande dibattito è rappresentato dalla metodologia utilizzata per la contabilizzazione delle emissioni di carbonio, in quanto la misurazione e la valutazione delle prestazioni in termini di emissioni di carbonio sembra lasciare alle imprese un ampio margine di manovra per poter dichiarare in modo del tutto arbitrario le loro prestazioni ambientali e, in particolare, gli sforzi dichiarati di riduzione di tali emissioni.

Per esempio, la dichiarazione delle emissioni Scope 3, nell’ambito dei regimi volontari è generalmente facoltativa e, sulla base di alcuni studi, solo un ristretto numero di imprese ha dichiarato tale tipologia di emissioni. Questa carenza di rendicontazione, unita al fatto che per molte imprese le emissioni Scope 3 rappresentino una parte significativa della loro impronta totale, aumenta enormemente il rischio per la maggioranza delle imprese di presentare un resoconto impreciso della loro reale performance in termini di emissioni di carbonio. Inoltre, non può escludersi che le imprese possano esternalizzare le proprie emissioni di carbonio alla supply chain, riducendo così le emissioni dichiarate e mantenendo o addirittura aumentando la quantità di emissioni complessive generate in relazione ai loro beni, servizi e asset senza ovviamente dichiararle.

Analoghe perplessità possono essere sollevate in merito alla comunicazione degli obiettivi aziendali di riduzione delle emissioni mediante il ricorso a compensazioni volontarie di carbonio (carbon offsetting) che consentono alle imprese di investire in progetti di riduzione delle emissioni di carbonio al di fuori della loro linea di business, compensando così le emissioni prodotte dall’ecosistema aziendale.

Tuttavia, sono state mosse critiche in merito alla percepita assenza di trasparenza e di addizionalità delle compensazioni di carbonio attraverso il carbon offsetting che potenzialmente crea emissioni negative inesistenti.

La richiamata critica alla mancanza di addizionalità è simile a quella espressa nel contesto dei green bond , alludendo alla questione più ampia della generale ambiguità sull’efficacia della divulgazione e degli sforzi di mitigazione proposti dalle imprese.

Con riferimento alla rappresentazione degli sforzi di riduzione delle emissioni di carbonio non veritieri, la mancanza di responsabilità si combina con elevati incentivi per le imprese a evidenziare pubblicamente le loro attività di mitigazione del clima o obiettivi più ambiziosi di quanto non siano in realtà.

In genere, le imprese registrano miglioramenti nella valutazione del prezzo delle azioni, in risposta all’emissione di green bond , suggerendo così incentivi concreti ed elevati per impressionare il management. Inoltre, anche se le imprese si impegnano in una Corporate Social Responsibility non rispondente alla realtà, tuttavia i mercati considerano tali sforzi (solo simbolici) in modo positivo, fornendo quindi forti incentivi al virtue signaling e alle dichiarazioni di performance ESG ex ante ancorché non comprovate.

Pertanto, le strategie di comunicazione, come la divulgazione di dati ambientali erronei o non verificati sono fortemente problematiche, in ragione dell’elevata esposizione al rischio. Supponiamo, difatti, che si possa ottenere un rendimento maggiore se si comunicano informazioni ambientali ingannevoli. In questo caso, il rapporto rischio-ricompensa, sbilanciato verso il secondo dei due termini, costituisce un forte incentivo per le imprese a impegnarsi in pratiche di divulgazione inavvertitamente o intenzionalmente non veritiere.

Un esame della teoria del greenwashing e la sua intersezione con lo stato attuale della divulgazione delle emissioni di carbonio a livello aziendale sono quindi fondamentali per capire gli incentivi alla base di questi casi di falsa comunicazione delle performance aziendali in materia di emissioni di carbonio, delineando al contempo i modi in cui individuare le pratiche ingannevoli. Gli stakeholder e le autorità di regolamentazione riconoscono appieno l’attualità e la delicatezza delle pratiche di greenwashing, in quanto tale fenomeno ha il potenziale per trasformarsi gradualmente in un rischio sistemico per i settori della green finance e degli investimenti ESG, dal momento che è stato uno dei key topics che ha indotto il legislatore europeo a promuovere una serie di recenti iniziative legislative e regolamentari proprio in materia di finanza sostenibile come, ad esempio, il Regolamento (UE) 2023/2631 del 22 novembre 2023 ( Regolamento Green Bond ), che introduce requisiti standard a livello unionale per classificare un titolo obbligazionario come “ obbligazione verde europea ” (green bond), la proposta di Regolamento (UE) in tema di trasparenza e integrità delle attività di rating ambientale, sociale e di governance (ESG), volta a migliorare la qualità delle informazioni sui rating ESG, al fine di consentire agli investitori di prendere decisioni di investimento più informate riguardo agli obiettivi di sostenibilità, nonché la recentissima direttiva 2024/825/UE del 28 febbraio 2024 ( Direttiva Green Claims ), in vigore dal 26 marzo 2024, in tema di contrasto del greenwashing, responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde e importanza del miglioramento della tutela dalle pratiche commerciali sleali e dell’informazione.

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*A cura di Marco Letizi, PhD, Avvocato, Dottore Commercialista e Revisore Legale, Consulente Internazionale delle Nazioni Unite, Commissione Europea e Consiglio d’Europa

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