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Esame avvocato/14: il caso penale, quando il mobbing assume rilevanza penale?

Il dodicesimo caso con l'approfondimento giurisprudenziale per affrontare lo scritto di penale. La simulazione è tratta da una recentissima sentenza della Corte di cassazione n. 31273 depositata in data 9 novembre 2020

di Nicola Graziano

Con una recente decisione la Suprema Corte di cassazione affronta, nuovamente, il tema della rilevanza penale del mobbing che, come è noto, si concretizza in un insieme di condotte vessatorie, reiterate e durature, rivolte nei confronti di un lavoratore, finalizzate a ledere la sua integrità psicofisica e/o ad estrometterlo dalla azienda in cui svolge la propria attività lavorativa.

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Il caso esaminato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 31273 depositata in data 9 novembre 2020 ancora una volta esemplifica un possibile esercizio su di un tema classico che sta alla base della preparazione alla prova di diritto penale in cui si snoda l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

La questione affrontata, infatti, pone il tema della rilevanza penale del mobbing e in particolare dell’inquadramento di una condotta posta in essere nei confronti di un lavoratore da parte di un suo superiore gerarchico, in una possibile fattispecie delittuosa nel rispetto del principio della tipicità delle ipotesi di reato.

Infatti, in assenza di una espressa tipizzazione della fattispecie penale di mobbing, è compito della giurisprudenza, verificare se il comportamento posto in essere dal datore di lavoro possa essere qualificato in termini penalistici e, a seconda del modo di concretizzarsi del mobbing, sotto quale ipotesi delittuosa sussumere la condotta dell’autore del reato.

Varie sono le fattispecie delittuose prese in considerazione dagli interpreti e dalla giurisprudenza, spaziando dai maltrattamenti in famiglia fino alla istigazione al suicidio ed alla violenza sessuale e ancora altre ipotesi.

Nel caso recentemente affrontato, invece, gli Ermellini hanno ritenuto che il reato di atti persecutori è configurabile anche in caso di mobbing, delineandone la condotta in tal senso rilevante.

  1) La sentenza in esame: Corte suprema di cassazione, sezione V penale, sentenza del 9 novembre 2020 n. 31273

 2) La questione giuridica

Se, ed in quali condizioni, il mobbing (verticale e discendente perché commesso da un soggetto posto in grado di superiorità gerarchica rispetto alla vittima), oltre a configurare un illecito civile fonte di responsabilità da inadempimento degli obblighi contrattuali assunti dal datore di lavoro ovvero illecito extracontrattuale, possa essere inquadrato nella fattispecie delittuosa di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis del codice penale.

  3) Riferimenti normativi: articolo 25 della Costituzione; articolo 1 del Cp; articolo 612 bis del Cp.

  4) Le possibili interpretazioni

Il mobbing come fonte di responsabilità civile

Il termine mobbing indica un una situazione di aggressione, di esclusione e di emarginazione di un lavoratore da parte (più raramente) dei suoi colleghi (cd. mobbing orizzontale) o dei superiori (cd. mobbing verticale), che causa al soggetto vessato malessere, disagio e stress, fino a cagionare vere e proprie malattie fisiche. In ambito civile la giurisprudenza che si occupa del mobbing e dei suoi effetti, ha maturato un efficace profilo repressivo, fondato sulla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, e individuando gli articoli 2087 e 2043 del codice civile come cardini del sistema.

Il mobbing e il principio di tipicità delle fattispecie penali

In mancanza di una espressa previsione del reato di mobbing bisogna fare i conti con il principio della tipicità delle fattispecie penali e utilizzare solo ipotesi delittuose codificate se, ovviamente, la condotta posta in essere in concreto, possa essere riferibile ad uno dei reati contemplati nel codice penale.

Orbene, stante la vaghezza della fattispecie di mobbing e la difficoltà di individuarne gli elementi costitutivi si pone il problema del rispetto del principio di legalità costituzionalmente rilevante in diritto penale (articolo 25 della Costituzione e articolo 1 del Cp)

Si individuano però come elementi costitutivi del fenomeno: a) l’intento vessatorio che b) si protrae in modo sistematico ed abituale c) attraverso condotte poste in essere in un contesto lavorativo.

Inoltre si possono individuare tre possibili accezioni in cui il mobbing possa ottenere rilevanza penale: come elemento costitutivo del reato (si veda di seguito), come movente (cioè può caratterizzare l’elemento soggettivo dell’agente, qualificandolo come dolo specifico, e permettendo quindi di inquadrare la condotta all’interno di una fattispecie di reato piuttosto che di un’altra, ad esempio distinguere estorsione da violenza privata), come circostanza aggravante (del motivo abietto come nel caso in cui il superiore sottoponga a vessazioni il lavoratore per indurlo alle dimissioni o lo assegni a mansioni inumane e pericolose, oppure del motivo futile quale ad esempio il mobbing posto in essere dai colleghi per noia; più frequentemente, può integrare l’aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p. il c.d. abuso di autorità).

Il mobbing come elemento costitutivo del reato

A seconda del bene giuridico che si intende proteggere si possono considerare i tipici beni relativi alla tutela della persona, cioè l’integrità psico-fisica, l’onore, la riservatezza etc, ricorrendo quindi a fattispecie di reato preesistenti quali i reati di ingiuria, diffamazione, molestie, minacce ed ancora i delitti di lesioni, violenza sessuale, violenza privata, estorsione, fino a ricorrere ai reati di istigazione o aiuto al suicidio.

In particolare il delitto di cui agli articoli 571 e 572 del Cp.

Nel tentativo di garantire una tutela più uniforme, che contempli la condotta vessatoria nel suo complesso, la giurisprudenza ha fatto ricorso all'ipotesi dei maltrattamenti in famiglia (articolo 572 del Cp) ovvero alla ipotesi dell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (articolo 571 del Cp).

Si riporta la ricostruzione contenuta nella recentissima sentenza n. 31273/2020 che, ancor prima, definisce il mobbing.

Orbene il mobbing lavorativo si configura ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo che unifica la condotta, unitariamente considerata. Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l'accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione

In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di «mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro».

In riferimento alla rilevanza penale delle condotte di mobbing, questa Corte ha affermato come le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia.

Sempre valorizzando il piano della relazione - verticale - tra le parti, si è precisato come, in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall'articolo 571 del Cp la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell'esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’articolo 572 del Cp la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico.

Mobbing e atti persecutori alla luce della sentenza n. 31273/2020

Siffatta visione, tutta incentrata sulla tutela dell'integrità psico-fisica della vittima, insiste, nondimeno, sulla connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro; e non esclude - ma, anzi, conferma - la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all'articolo 612 - bis del Cp, ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati.

Ed invero il delitto di atti persecutori - che ha natura di reato abituale e di danno - è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie.

Ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purché sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all'esito della necessaria verifica causale.

In altri termini, il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’articolo 612 - bis c.p.

Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell'alveo precettivo di cui all’articolo 612 - bis c.p. laddove quella «mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro», elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice.

Resta ferma però la distinzione tra il mobbing e lo stalking.

In primo luogo riguarda la tipologia di relazione tra vittima e persecutore: nel caso del mobbing, l'agente vuole allontanare la vittima, che invece lotta per mantenere la relazione, e cioè per conservare il posto di lavoro; nello stalking, lo stalker vuole a tutti i costi creare una relazione con la vittima, che invece la rifugge.

Lo stalking, poi, è un fenomeno ampio, che interessa per lo più la sfera privata e attiene alle relazioni umane, mentre il mobbing è un fenomeno che si verifica unicamente nell'ambiente lavorativo.

Il fenomeno delineato dall'articolo 612 bis è inoltre ben più grave rispetto al mobbing: lo stalker pone in essere una persecuzione totale, che limita fortemente la libertà e la tranquillità individuale della vittima, causandole ansia, timore per la propria incolumità e costringendola a cambiare abitudini di vita per evitare tali attacchi; non di rado, purtroppo, azioni persecutorie di questo tipo sfociano in epiloghi tragici, conseguenze invece difficilmente verificabili in presenza del fenomeno mobbing.

Si ritiene possibile garantire la copertura penale del mobbing tramite l’articolo 612 bis c.p. qualora questo fenomeno sia realizzato attraverso comportamenti che si concretizzano in minacce e molestie, causative di un grave e perdurato stato d’ansia, del fondato timore per l’incolumità o del forzoso cambiamento di abitudini di vita.

Manca, nel reato di atti persecutori, il fine dell’emarginazione del lavoratore, tipico del mobbing, ma non richiedendo l’articolo 612 bis c.p. un dolo specifico incompatibile con tale fenomeno – essendo sufficiente la presenza di un disegno persecutorio ai danni della vittima, – ciò non impedisce il ricorso a questa norma per tutelare i soggetti mobbizzati.

5) Note di commento
La sentenza in esame:
Corte suprema di cassazione, sezione V penale, sentenza del 9 novembre 2020 n. 31273

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